“Camionista
dello spazio”,
John Ellroy amava sentirsi proprio questo. Anche se in realtà il suo
lavoro era “pilota
di cargo per il trasporto merci tra la Terra e le colonie”.
Sorseggiò
piano la sua tazza di caffè bollente, e abbassò tre levette in
sequenza sulla consolle. Sul vetro della nave, in alto a sinistra,
comparve la simulazione della mappa stellare, con la posizione
corrente. Al di là del vetro, invece, il cosmo nero puntellato di
stelle continuò a venirgli incontro.
L’ammasso
di ferraglia su cui viaggiava scorreva nello spazio, illuminato dalla
luce lontana del Sole. Innumerevoli tubazioni si inseguivano sulla
sua superficie, interrotte da grate, boccaporti e torrette
d’ispezione. Sulla lunga dorsale stavano aggrappate quattro serie
di grandi cisterne, divise in gruppi di tre. Molte luci brillavano
prepotenti qua e là. Seguiva il tutto la sezione motori con sei
ugelli che sputavano un’intensa scia luminosa bianca.
Nadyria!
Questo era il nome del “camion” spaziale. Ma era solo John a
chiamarlo così, in onore dei miti passati. Negli spazioporti lo
chiamavano mercantile X79 della Compagnia Nardus. Una delle più
grandi società di trasporto del settore.
Una
voce femminile, calda e sensuale, sussurrò delicata.
«Buongiorno,
John».
«Buongiorno,
Katie, sono sveglio da almeno dieci minuti. Avvia il check up della
nave, voglio un controllo accurato» sorseggiò ancora.
«Come
vuoi, tesoro».
John
appoggiò la tazza sulla consolle e attese.
Se
il computer interagisce parlando, perché chiamarlo computer? C’erano
una serie di nomi già impostati di default e Katie lo faceva sentire
sicuramente meno solo. E tra le voci possibili c’era l’amico che
scherza al bar, la splendida donna sexy, il capitano di vascello
molto autoritario e il compagno gay... cosa valeva la pena scegliere?
Era ovvio! La splendida donna sexy.
Anche
se, negli ultimi giorni, si era reso conto che quella voce cominciava
a stancarlo. E non era colpa di lei, lo sapeva bene.
Era
per colpa delle donne, e dei casini che gli avevano combinato.
«Lo
sai, Katie? La mia ex moglie rimarrà ex...»
Ci
fu il silenzio per qualche attimo. Il computer stava elaborando la
risposta più azzeccata, chissà in base a quale variabile.
«John,
non dirmi che hai provato a parlarle, dopo quello che ti ha fatto».
«L’ho
perdonata».
«È
scappata col dottore, e tu l’hai perdonata?»
«Non
stanno più insieme».
«E
va bene, che ti ha detto? Perché non vuole tornare con te?»
«Dice
che sto via per mesi. Non è sicura di riuscire ad aspettarmi. E che
le nostre strade devono prendere direzioni diverse».
«John,
sei sempre il solito sentimentale... pazienza, vorrà dire che ti
avrò tutto per me».
«Sono
elettrizzato, Katie».
Che
fosse il momento di spegnere il computer? Stava diventando irritante,
John pensò seriamente di entrare nel programma e passare al capitano
di vascello. Sì, forse una voce impersonale che parlava con distacco
era la soluzione giusta. O forse no.
«John,
puoi avere tutte le donne che vuoi. Sei bello!»
«Me
ne basta una, Katie» disse sorridendo. Che ne poteva sapere di
donne, quella macchina? Magari l’aveva programmata proprio un uomo.
Si
alzò e andò dietro, scostò la tendina che separava il vano
pilotaggio dall’altra sezione, quella ricreativa. C’era un
portello che avrebbe dovuto aprirsi e chiudersi in modo scorrevole,
ma lui lo detestava e l’aveva bloccato. E aveva messo la tendina.
Passò.
Nell’altra sezione c’erano tutte le sue cose tra cui un vecchio
cappello da cowboy appeso e una bandiera confederata che prendeva
buona parte della parete.
I
confederati avevano perso la guerra di secessione. Per questo gli
stavano simpatici. Avevano sempre perso, come lui. Ed erano stati
uomini dei suoi posti, del Tennessee. E quindi un pezzettino di
quella bandiera rossa incrociata di blu con le stelle bianche
rappresentava la sua terra.
I
confederati erano razzisti? Sì, quelli di un tempo. Le giacche
grigie che combattevano contro le giacche blu per mantenere la
schiavitù... ma si parlava di preistoria. Oggi, nel 2968, tutto
questo non aveva più alcun significato. L’unica cosa importante
era aggrapparsi a qualcosa che identificasse l’uomo col luogo in
cui questo era nato, visto che la Terra era ormai diventata un’unica
città e le nazioni si erano tutte fuse in una sola.
E
poi c’erano le altre cose, in quella stanza. C’era un vecchio
flipper funzionante, l’area bar, il grande monitor per vedere film
e giocare con i videogames.
Che
palle! Pensò
John. Quando
ti offrono questo tipo di lavoro dicono che è una passeggiata, che
tutto scorre liscio come l’olio. Anche una scimmia sarebbe in grado
di portare la merce a destinazione. Ebbene, hanno ragione!
S’intristì.
«John...»
la sensuale voce di Katie lo raggiunse anche nell’area ricreativa,
il computer lo sentivi dappertutto.
«Che
succede?» rispose lui.
«Ho
finito il check up. Ho i risultati e c’è un problema».
«Visualizza
l’immagine olografica della situazione».
Al
centro della stanza si materializzò l’immagine. Era la mappa
tridimensionale della nave, fatta di linee colorate. Vicino alla
sezione motori un elemento lampeggiava in rosso.
«Ingrandisci.
B-9».
E
lei ingrandì l’elemento incriminato.
«È
uno dei vaporizzatori di carico, Dobbiamo sostituirlo, o tutta la
sezione si surriscalderà» con la mano si coprì la faccia, poi
scese giù fino al mento. Faceva sempre così quando era preoccupato.
Si
mosse veloce verso il vano pilotaggio, scostò la tendina, entrò. Si
sedette sulla poltrona davanti alla consolle. Attraverso il vetro
vedeva lo spazio, milioni di stelle e Saturno, o meglio, una sua
parte... in basso a destra.
In
alto a sinistra, Katie, mostrava tutti i dati importanti. La mappa
della nave, il check up e il pezzo in avaria. Sotto, la distanza da
Saturno e dalle sue lune, la velocità e i possibili punti di entrata
in orbita.
«Katie,
voglio le coordinate per la stazione rifugio più vicina».
Passarono
alcuni istanti di elaborazione. Poi, il computer produsse il suo
risultato.
«Stazione
Idra, sulla luna Encelado. Coordinate 2.53.7 e 4.73.21».
«Atterriamo
lì, non voglio rischiare danni maggiori».
«John,
ti ricordo che la Compagnia ti impone come data di rientro il 15
febbraio, e siamo già al 10».
«Lo
so, ma è meglio ritardare, piuttosto che non arrivare per nulla!»
John
impostò le coordinate manualmente. Afferrò la cloche e portò il
bestione
sulla nuova rotta. Prese a virare verso Saturno.
La
stazione Idra era stata costruita in un’area piana in mezzo alla
zona montuosa di Encelado.
Si
sviluppava in profondità con alloggi per clienti e personale. In
superficie cresceva la struttura fortificata protetta dalla barriera
antimeteoriti. C’erano il bar, l’area ristoro e tutti gli hangar
coi meccanici e le zone rifornimento. Alcune astronavi stazionavano
sui piazzali. Ce n’erano di tutti i tipi: due navi turistiche, una
pattuglia della polizia e alcuni cargo mercantili.
Il
Nadyria spuntò tra le stelle, sopra la stazione. E lentamente, prese
a scendere.
Toccò
terra sbuffando vapore da tutte le parti. Scricchiolii e pistoni che
scorrevano assestarono la struttura.
E
finalmente fu fermo.
La
bassa gravità permetteva questo. Sulla Terra sarebbe stato
impensabile un atterraggio del genere. Ma tanto non era necessario.
Intorno alla Terra c’era la stazione orbitale e i mercantili
attraccavano, scaricavano le merci che venivano portate giù dagli
shuttle. Poi ripartivano, possibilmente carichi col materiale per le
colonie, perché viaggiare vuoti non paga. E a volte, addirittura, si
rimaneva inattivi per giorni, pagando la sovrattassa di ormeggio,
nella speranza di acchiappare qualche buon ordine di trasporto.
Il
portello scorrevole che dava sull’esterno si aprì. Entrò aria
fresca. La barriera antimeteoriti formava una cappa energetica stagna
che riproduceva le condizioni ottimali terrestri: temperatura,
gravità, atmosfera. C’erano, insomma, tutte le comodità.
«Katie...»
disse John.
«Sono
tua, bel fustone».
John
si ripromise di abbassare qualche livello del programma, al suo
ritorno dal bar e dall’area meccanici.
«Devi
pensare alla protezione del Nadyria mentre sono via. Sei operativa?»
Una
serie di scatti attivarono ingranaggi e forza meccanica. Due forme
sferiche ai lati del corridoio che dava sull’uscita ruotarono.
Vennero in fuori. Scoprirono due cannoni laser telescopici, che si
svilupparono in avanti.
John
se li trovò puntati addosso.
«Sei
la solita esibizionista. Bastava rispondere sì».
«Vai
tranquillo, caro. L’antifurto è attivo».
Il
ponte scese e John sbarcò. Subito dopo il portello si richiuse e il
ponte risalì: Katie rimaneva di guardia.
Attraversò
l’enorme piazzale di parcheggio, passando in mezzo alle altre
astronavi ferme. Sopra di lui, altissimo, c’era l’alone azzurrino
della barriera, che schiariva il nero cielo stellato.
Vide
due titaniani che discutevano, vicini al loro cargo. Si riconoscevano
dalla tuta da minatore e dal dispositivo coi filtri che indossavano
quando non erano su Titano. Aver modificato geneticamente le nuove
generazioni di coloni su quella luna era stata una mossa astuta, ma
se nel resto del sistema solare si continuava a diffondere l’aria
della Terra, la mossa astuta diventava un handicap.
Comunque
John arrivò davanti alla porta del bar. Pensò al vecchio west e al
suo cappello da cowboy. La porta del Saloon, a quei tempi, si apriva
in maniera bizzarra. Ma di questo non era del tutto sicuro, forse era
così solo nei film.
La
porta pneumatica si aprì scorrendo dentro la parete. E lui entrò.
Notò
subito la barista. Come si faceva a non notarla, era molto bella.
Anche lei puntò gli occhi su di lui, ma questo era ovvio, arrivava
un altro cliente.
Comunque
su di lui, puntarono gli occhi anche tutti gli avventori, che poi non
erano molti. C’era un titaniano seduto a un tavolo e, visto che
aveva davanti due bicchieri vuoti oltre a quello che teneva in mano,
doveva essere il compagno di quelli che discutevano fuori.
Poveraccio!
Beveva
con una specie di cannuccia innestata nella maschera a filtro.
Poi
c’era una famiglia di turisti, padre, madre e due bambini. Gente
benestante, che poteva permettersi una nave personale per le proprie
vacanze. In fondo, nella penombra, c’erano due camionisti della
Terra. Non li conosceva, ma per spirito di appartenenza gli fecero un
cenno di saluto che lui ricambiò. Al tavolo più vicino al bancone,
infine, sedevano due poliziotti. La loro lancia di pattuglia ferma
nel piazzale non si poteva non notare. I poliziotti non gli erano
simpatici. Quelli corrotti dalla Compagnia lo lasciavano sempre
tranquillo, ma quelli comprati dalle altre compagnie portavano solo
guai. Questi lo scrutarono e non dissero niente. A quale categoria
appartenevano?
In
un angolo solo al tavolo, in ombra, c’era un tipo misterioso. Un
asiatico, completamente vestito di nero, molto elegante. Forse si
trattava di un uomo d’affari, anche se era troppo atletico per
esserlo.
John
si avvicinò al bancone e si appoggiò sui gomiti.
«Cosa
bevi, biondo?» disse la barista.
«Dammi
un whiskey, bellissima».
Lei
si girò, prese la bottiglia dallo scaffale e gli riempì il
bicchiere.
«Ecco»
gli donò un sorriso, «sono due crediti, qui si paga subito».
«Mi
sembra giusto» disse lui e tirò fuori di tasca una scheda
elettronica, la passò a lei e bevve, tutto d’un fiato.
«Ho
un problema coi vaporizzatori di carico, appena esco di qui vado dai
meccanici. Ma per i soldi devo parlare con te, come nelle altre
stazioni, vero?»
«Per
le riparazioni, per il rifornimento, per bere, mangiare e per
dormire. Passa tutto da me, ma non credere che io sia la padrona
della baracca, qui».
«Che
ci fa una bella donna come te in un posto come questo, lontano da
tutto e da tutti?»
«Fammi
un’altra domanda».
«Cosa
fai stasera?»
«Quello
che faccio ora, mi trovi dietro al bancone, biondo. O devo chiamarti
in un altro modo?»
«Chiamami
John, mi chiamano tutti così, da quando sono nato».
«Kirsten».
«Incantato»
questa volta sorrise lui. Poi, con un veloce dietro
front,
si diresse all’uscita. Senza dire altro.
(il racconto continua su Delos Digital)
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