Capitolo 1
Gannikar
e la sua donna Dreisa arrivarono nella valle della Fortezza Umnok,
portavano con loro il figlioletto Midro.
La
Fortezza era in rovina da quando gli Umnok erano stati sconfitti
dalle terribili orde del Nord. Eppure, anche se con parti di mura
abbattute e col muschio che saliva dal basso sempre più aggressivo,
la struttura appariva ancora oggi imponente: le quindici torri
esagonali si innalzavano come picchi inaccessibili e quasi toccavano
le nuvole.
Si
diceva che bande di massacratori avessero fatto di quel posto la loro
base, ma Gannikar sapeva che non era vero. E il motivo era semplice,
gli Umnok erano potenti stregoni, praticavano la magia nera e il
popolo violento e rozzo dei massacratori li temeva... anche da morti.
I
massacratori erano pericolosi e incontenibili, il villaggio degli
uomini non era sicuro quanto il luogo maledetto in cui aleggiava
ancora lo spettro degli Umnok e per questo motivo Gannikar veniva qui
con la famiglia. Questo posto era il più sicuro.
Per
lui, oggi era un altro giorno di caccia al vlainoc, l’uccello dalle
carni pregiate. E la sua donna con suo figlio dovevano aiutarlo nel
trasporto delle prede fino al villaggio.
Guardò
verso l’alto le altissime torri. Le erbacce crescevano dappertutto
e la pietra scura mostrava innumerevoli fessure, utili per
arrampicarsi. Forse era possibile entrare nelle rovine e salire
dall’interno, ma poteva farlo un uomo libero da impicci, non un
cacciatore di vlainoc con la sua ingombrante bardatura.
Dreisa
e Midro l’aiutarono a vestirsi, poi si ripararono dentro le mura,
passando per una grossa spaccatura. E si tirarono dietro il piccolo
carrello che avevano portato per il trasporto della selvaggina.
Gannikar
controllò l’attrezzatura. Le ali pieghevoli e la balestra coi
quattro arpioni. Controllò i quattro rulli alla cintura, poi sorrise
alla sua donna. Lei, da lontano, seminascosta dalla pietra, ricambiò.
Anche il piccolo Midro fece capolino e lo guardò con occhi sognanti.
Lo guardava e vedeva un eroe, il suo eroe.
***
Iniziò
a salire. Si arrampicava come un ragno, le dita sembravano artigli
che facevano riuscivano a far presa sui massi. E questo perché
possedeva una forza superiore a quella degli altri uomini del
villaggio e nessuno sapeva il perché. Si sapeva solo che pochi erano
come lui e che tutti cacciavano i vlainoc.
Salì
e salì ancora.
A
un certo punto si voltò a guardare la sua famiglia, era certo che lo
stessero osservando, infatti li vide affacciati dal loro
nascondiglio. Li vedeva piccolissimi. Sorrise.
Volse
lo sguardo in su e continuò a salire, pietra dopo pietra.
Salì
ancora. Si fermò solo quando fu quasi in cima. Appena trovò la
giusta apertura: una larga falla delimitata da mille crepe.
Probabilmente la devastazione per un colpo di trabucco.
Salì
sulle pietre sconnesse. Si eresse in piedi e si affacciò sul
baratro. Tirò la leva che mosse un ingranaggio dell’attrezzatura,
le ali si dispiegarono e si sporse in avanti.
Saltò.
Iniziò
a planare con eleganza. Dal basso, in controluce, l’aliante
cacciatore con la balestra spianata assomigliava a un grosso rapace.
Volteggiò
tra le torri scendendo imperioso, aggressivo e attento. Pronto a
scorgere la preda.
Girò
intorno alla prima e poi ancora tra la seconda e la terza. E proprio
passando radente a questa, sulla parete in ombra, scorse due vlainoc
artigliati alla pietra: si mossero spaventati e iniziarono a volare
tentando la fuga.
Gannikar
li mirò col cannocchiale dell’arma. Lanciò un dardo, poi subito
un secondo. Andarono a segno entrambi e gli uccelli, trafitti,
precipitarono. I volatili restarono attaccati ai rulli della cintura
grazie ai dardi collegati con le funi.
Appesantito,
prese a scendere più veloce ma mantenne la calma. Sapeva quello che
faceva. Compì un’ampia curva e girò intorno alla torre. Più in
basso saltarono fuori altri tre vlainoc. Salirono in formazione verso
di lui, poi virarono all’ultimo, per sfuggirgli.
Mirò
con calma, calcolava sempre un anticipo e tirava il grilletto al
momento giusto.
Partì
il primo colpo. Il volatile fu infilzato in pieno, e andò in vite.
Ne
mirò un altro, sentì lo strattone del terzo animale che rimaneva
appeso e tendeva a tirarlo giù. E tenne conto anche di questo mentre
mirava.
Sparò.
Centro
anche sul quarto! Lo
vide precipitare e poco dopo ne sentì il contraccolpo. Ora li aveva
tutti e quattro a carico. Il quinto ormai era in fuga e lui non aveva
più arpioni, la caccia era finita.
Si
accorse che planava troppo forte. Afferrò le due grosse leve che
arrivavano da dietro, all’altezza dei fianchi. Tirò forte. Le ali,
mediante un complesso meccanismo a ingranaggi, sbatterono lente.
Rimandò indietro le leve con fatica e ripeté l’operazione. Le ali
sbatterono ancora imprimendo portanza. L’angelo lottava contro
l’aria per farsi sostenere. Mosse indietro le leve e poi tirò
ancora. Un altro sbatter l’ali potente si scatenò, sentì che
poteva bastare, aveva ripreso a planare in modo regolare.
Virò
in mezzo alle torri successive e scese. Scese verso la sua famiglia.
Le
prede appese toccarono terra prima di lui, strisciando sull’erba e
sui sassi. Arrivò vicino al suolo. Mandò indietro le leve e poi
tirò ancora, le ali si mossero un’ultima volta, possenti. E gli
permisero di atterrare dolcemente. Subito si ripiegarono.
Midro
gli corse incontro e lo abbracciò: «Papà!» strinse più forte che
poteva.
Dreisa
che avanzava subito dietro gli arrivò davanti, lo tirò a sé
prendendolo per la giacca e lo baciò.
«Non
hai sbagliato un colpo!»
«È
andata bene. Barattando questi avremo pelli calde per la notte e
viveri».
Gannikar
si sganciò le cinghie dello spallaccio e la cintura coi rulli.
Dreisa l’aiutò. Mediante una manovella arrotolarono le funi.
Midro
estrasse i dardi dai vlainoc aiutandosi con un pugnale e li posizionò
sul carretto. Poi, tutti insieme, vi caricarono anche l’attrezzatura
alare e la balestra.
Iniziarono
a spingere, era ora di tornare a casa.
Capitolo 2
Gannikar
e la sua famiglia arrivarono sulla collina. La Fortezza Umnok, vista
da quel punto, appariva ancora più imponente e tetra, ma la natura
aveva preso il sopravvento. La vegetazione la accerchiava, le piante
rampicanti la ghermivano ogni giorno di più. L’immenso maniero
degli stregoni neri si sgretolava col tempo.
Non
si sapeva molto delle terribili orde del Nord, ma la leggenda narrava
che i massacratori facessero parte di quelle schiere. E che fossero i
meno pericolosi, in quanto mostri solo a metà, e soltanto di notte.
I
massacratori erano in guerra con gli uomini da almeno mille anni. E
tutto quello che c’era di documentato su pergamena non arrivava a
un’epoca così remota, per cui la storia antica, tramandata a voce,
era divenuta confusa.
Si
raccontava che gli stregoni neri, nel disperato tentativo di
salvarsi, avessero infuso la bestialità delle orde in alcuni uomini,
creando abomini. E c’era chi giurava che anche oggi, in alcuni
sfortunati, restasse latente una forza demoniaca pronta a esplodere
all’improvviso. C’era chi lo giurava, ma Gannikar era sicuro che
fossero solo degli invasati.
Raggiunsero
le porte del villaggio di Alekma dopo una mezza giornata di cammino.
C’erano intorno, tanti grassi mammiferi pelosi che pascolavano
lenti masticando l’erba. La loro carne era insipida rispetto a
quella dei vlainoc, considerati merce pregiata e venduti a chi poteva
permettersi di comprarli. In pratica, i grassi mammiferi erano per i
poveracci, i vlainoc per gli abbienti.
Due
uomini nascosti tra gli alberi, armati con balestra e spada, fecero
un cenno di saluto, erano le vedette esterne. Permisero loro il
passaggio. Una palizzata proteggeva le case in legno e pietra della
comunità e proprio in quel momento un portone si spalancò per farli
entrare.
In
mezzo alle abitazioni sorgeva il Korvho, un palazzo massiccio
dall’architettura arcaica. Una rocca che doveva assicurare sempre
un’estrema difesa.
L’arconte
qui risiedeva e amministrava il suo potere. Era il capo, era la Legge
e il suo volere non si poteva discutere. Era anche il sacerdote del
culto del Sole e da lui dipendeva l’intercessione per avere buoni
raccolti o per evitare epidemie tra il bestiame.
Ogni
villaggio degli uomini aveva il suo arconte e ogni villaggio era una
comunità a sé. Difficilmente nascevano alleanze, tranne quando
diventavano necessarie per fronteggiare gli attacchi dei
massacratori. Ma in questi casi si portavano dietro scarsa
collaborazione.
Spinsero
il carretto carico di selvaggina sul sentiero principale del
villaggio. C’erano persone che andavano e venivano, indaffarate a
portare pelli e casse di legumi, oppure ferme davanti alle case, a
lavorare con attrezzi in legno.
In
mezzo alla piazza principale c’era la grande pompa meccanica, con
ingranaggi sempre in movimento grazie ai moltiplicatori che
sfruttavano il vento e tiravano su acqua. Acqua a disposizione di
tutti.
Due
bambini vennero incontro a Midro correndo. E lui alzò gli occhi a
suo padre aspettando un segno di assenso per seguirli nei giochi.
Gannikar sorrise e annuì. E in tre corsero via lungo la staccionata
della casa del fabbro, per chissà quale avventura scaturita dalla
loro fantasia.
«Gannikar,
vedo che hai fatto buona caccia, oggi!» disse Tskall, un altro
cacciatore di vlainoc, che si avvicinava camminando tranquillo.
«È
andata bene. Vado al Korvho, per barattarli con ciò che mi è
utile».
«Ti
propongo una sfida: chi di noi abbatterà più vlainoc in un sol
giorno avrà diritto a prendersi anche quelli dell’avversario. Che
ne dici?»
«Mi
alletta. Ma non vorrei farti piangere come una donnicciola quando mi
vedrai partire col frutto della tua caccia».
«Ah,
ah, ah! Riderò invece... riderò perché resterai a mani vuote».
«Ci
vediamo alla Fortezza, allora. Ma ricordati che sarò io a fare il
bottino più grosso. Vedrai!».
Tskall
rise ancora.
«Quando
saremo lassù, mi vedrai volare più in alto di te, l’unico tuo
vantaggio sarà rinfrescarti alla mia ombra».
Dreisa
strinse la mano di Gannikar e lo tirò per sottrarlo a quella stupida
perdita di tempo. Tskall non aveva una donna intelligente che lo
guidava nelle scelte, per questo era pericoloso. Tutto il profitto
che ricavava dalla caccia lo sperperava barattandolo con giare di
idromele e con qualche ora passata insieme a donne compiacenti. Lei
non voleva che Gannikar lo frequentasse, perché poteva cambiarlo.
Ma
la sfida era ormai lanciata e accettata. Tskall puntò il dito su
Gannikar e strinse un occhio. Rise beffardamente, li superò e se ne
andò per la sua strada, probabilmente pregustando la futura
vittoria.
Dreisa
non era per niente contenta per come il suo uomo cadesse in simili
tranelli. Rischiare la vita ogni giorno per sfamare la famiglia era
necessario, ma aumentare i rischi in una stupida competizione poteva
renderlo meno accorto e condurlo alla morte. Cosa avrebbe fatto senza
di lui? Che futuro avrebbe avuto suo figlio, visto che non era ancora
un uomo? Puntò Gannikar stizzita. Lui ebbe una smorfia d’imbarazzo
e guardò altrove, sicuro che la tempesta sarebbe passata presto.
Camminarono
in mezzo alla gente, fino alla struttura centrale: il cuore del
villaggio, il Korvho.
L’entrata
era sorvegliata dagli armigeri dell’arconte. Questi osservavano chi
entrava e chi usciva con distacco pronti a bloccare i turbolenti o
chi a intuito sembrava rappresentare un pericolo. Alcuni di loro non
erano neppure del villaggio, molti venivano assoldati tra gli
esiliati erranti, gente scacciata dalla terra natia.
Gannikar
abbassò lo sguardo per non provocarli, era vero che la guardia
armata risultava dura con i villici, ma era anche vero che
rappresentava la miglior barriera contro i massacratori. E la difesa,
in questi anni bui, era importante.
***
Entrarono
nel palazzo, che si allargava in un grande atrio rotondo, con ruvide
pareti in pietra illuminate da innumerevoli fiaccole. Al centro,
rialzato da alcuni gradini c’era un trono in legno finemente
intagliato. L’arconte, comodamente seduto su quello scranno dava
udienza.
C’erano
cacciatori, donne che offrivano il loro corpo, mercenari di guardia e
galoppini che trattavano gli affari per il loro padrone.
Gannikar
notò subito, fra tutti, un gruppo di emissari del villaggio di
Emyria. Avevano il vessillo del fuoco stampato sull’armatura.
Quello più alto, che doveva essere il capo, parlò.
«Emyria
è stata attaccata due volte, in questi giorni. Siamo a chiederti
rinforzi. Devi mantenere il nostro patto di alleanza, come noi
abbiamo fatto quando siete stati attaccati».
«Un
debole patto!» gracchiò l’arconte con la sua voce stridula,
«avete portato aiuto pretendendo un tributo esoso. I vostri soldati
mi sono costati quasi la metà delle mie risorse. L’arconte di
Emyria è troppo avido. Rivoglio indietro ciò che vi ho dato! Solo
così vi aiuterò».
«I
massacratori hanno bruciato i magazzini del villaggio, li abbiamo
respinti a fatica e intanto gran parte dei viveri, delle pelli e
tutta la riserva di idromele sono andati perduti nell’incendio».
«Allora
dovrete respingerli ancora... ma da soli! Non muoverò un solo
soldato per voi».
Il
pugnale dell’uomo di Emyria scivolò fuori dal fodero talmente
veloce che nessuno ebbe il tempo di vederlo e saettò fulmineo
piantandosi nel legno del trono proprio sopra il capo dell’arconte.
Tutti nel Korvho si zittirono. Lo stesso arconte aveva le parole
gelate in gola. Le guardie si fecero avanti, estrassero le spade e,
proteggendosi dietro gli scudi, si prepararono alla battaglia.
I
soldati di Emyria sganciarono le asce legate sulla loro schiena e le
impugnarono pronti a tagliar teste.
«Probabilmente
moriremo domani» disse il loro capo, «quindi morire oggi per noi
non fa differenza. Bisogna solo scoprire quanti di voi ci seguiranno,
forse saranno proprio quelli che chiedevamo come rinforzo. Adrio: sta
pronto col pugnale!»
Adrio
aveva già la mano alzata e teneva il pugnale per la lama, pronto a
lanciarlo.
«Tranquillo
Draxo, lo serbo per la fronte dell’arconte!» sorrise.
L’arconte
alzò piano il braccio e parlò con voce tremante.
«Lasciateli
andare. Ammiro il loro coraggio, avranno presto l’occasione di
vantarlo davanti ai massacratori».
Abbassò
lentamente il braccio e le guardie rinfoderarono le spade. I soldati
di Emyria agganciarono le asce alle schiene, si voltarono senza dare
il saluto regale in segno di disprezzo e se ne andarono.
Nella
sala del trono nessuno parlava, l’arconte era immobile e
visibilmente spaventato, ma tutti dipendevano da lui, aveva appena
dimostrato codardia, eppure col potere che possedeva, avrebbe potuto
decretare la morte di un uomo anche solo per sfogarsi.
I
diaconi del Sole si avvicinarono.
«Lasciate
che il Sole vi guidi per uscire dal buio, potente arconte. Questo è
il desiderio del popolo».
«Sì»
rispose lui altezzoso, «il Sole mi ha già dato un segno. Ed è per
questo che ho rifiutato l’aiuto a Emyria, presto i nostri soldati
difenderanno Alekma e lo faranno con successo! Non ho altro da dire».
Quest’affermazione
ristabilì la normalità e tutti ripresero l’attività che
svolgevano prima dell’affronto emyriano. Le donne iniziarono a
strofinarsi addosso ai loro clienti e i galoppini portarono avanti le
trattative coi contadini e con i cacciatori.
Venne
il turno di Gannikar. Un galoppino gli si mise davanti e senza dire
nulla esaminò i vlainoc, poi gli offrì tre pelli, una cassa di
legumi e tre pezzi di carne secca. E aggiunse: «Ti sembra poco?»
«Non
mi sembra poco. Va bene così» si affrettò a rispondere Gannikar,
anche se era evidente che era poco. Purtroppo non si poteva vendere
la merce ad altri e il prezzo lo faceva il compratore, soprattutto se
era l’unico.
Prese
ciò che gli avevano dato, aiutato da Dreisa, e uscì.
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