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giovedì 10 gennaio 2019

Cacciatore di Vlainoc



Capitolo 1


Gannikar e la sua donna Dreisa arrivarono nella valle della Fortezza Umnok, portavano con loro il figlioletto Midro.

La Fortezza era in rovina da quando gli Umnok erano stati sconfitti dalle terribili orde del Nord. Eppure, anche se con parti di mura abbattute e col muschio che saliva dal basso sempre più aggressivo, la struttura appariva ancora oggi imponente: le quindici torri esagonali si innalzavano come picchi inaccessibili e quasi toccavano le nuvole.

Si diceva che bande di massacratori avessero fatto di quel posto la loro base, ma Gannikar sapeva che non era vero. E il motivo era semplice, gli Umnok erano potenti stregoni, praticavano la magia nera e il popolo violento e rozzo dei massacratori li temeva... anche da morti.

I massacratori erano pericolosi e incontenibili, il villaggio degli uomini non era sicuro quanto il luogo maledetto in cui aleggiava ancora lo spettro degli Umnok e per questo motivo Gannikar veniva qui con la famiglia. Questo posto era il più sicuro.

Per lui, oggi era un altro giorno di caccia al vlainoc, l’uccello dalle carni pregiate. E la sua donna con suo figlio dovevano aiutarlo nel trasporto delle prede fino al villaggio.

Guardò verso l’alto le altissime torri. Le erbacce crescevano dappertutto e la pietra scura mostrava innumerevoli fessure, utili per arrampicarsi. Forse era possibile entrare nelle rovine e salire dall’interno, ma poteva farlo un uomo libero da impicci, non un cacciatore di vlainoc con la sua ingombrante bardatura.

Dreisa e Midro l’aiutarono a vestirsi, poi si ripararono dentro le mura, passando per una grossa spaccatura. E si tirarono dietro il piccolo carrello che avevano portato per il trasporto della selvaggina.

Gannikar controllò l’attrezzatura. Le ali pieghevoli e la balestra coi quattro arpioni. Controllò i quattro rulli alla cintura, poi sorrise alla sua donna. Lei, da lontano, seminascosta dalla pietra, ricambiò. Anche il piccolo Midro fece capolino e lo guardò con occhi sognanti. Lo guardava e vedeva un eroe, il suo eroe.

***

Iniziò a salire. Si arrampicava come un ragno, le dita sembravano artigli che facevano riuscivano a far presa sui massi. E questo perché possedeva una forza superiore a quella degli altri uomini del villaggio e nessuno sapeva il perché. Si sapeva solo che pochi erano come lui e che tutti cacciavano i vlainoc.

Salì e salì ancora.

A un certo punto si voltò a guardare la sua famiglia, era certo che lo stessero osservando, infatti li vide affacciati dal loro nascondiglio. Li vedeva piccolissimi. Sorrise.

Volse lo sguardo in su e continuò a salire, pietra dopo pietra.

Salì ancora. Si fermò solo quando fu quasi in cima. Appena trovò la giusta apertura: una larga falla delimitata da mille crepe. Probabilmente la devastazione per un colpo di trabucco.

Salì sulle pietre sconnesse. Si eresse in piedi e si affacciò sul baratro. Tirò la leva che mosse un ingranaggio dell’attrezzatura, le ali si dispiegarono e si sporse in avanti.

Saltò.

Iniziò a planare con eleganza. Dal basso, in controluce, l’aliante cacciatore con la balestra spianata assomigliava a un grosso rapace.

Volteggiò tra le torri scendendo imperioso, aggressivo e attento. Pronto a scorgere la preda.

Girò intorno alla prima e poi ancora tra la seconda e la terza. E proprio passando radente a questa, sulla parete in ombra, scorse due vlainoc artigliati alla pietra: si mossero spaventati e iniziarono a volare tentando la fuga.

Gannikar li mirò col cannocchiale dell’arma. Lanciò un dardo, poi subito un secondo. Andarono a segno entrambi e gli uccelli, trafitti, precipitarono. I volatili restarono attaccati ai rulli della cintura grazie ai dardi collegati con le funi.

Appesantito, prese a scendere più veloce ma mantenne la calma. Sapeva quello che faceva. Compì un’ampia curva e girò intorno alla torre. Più in basso saltarono fuori altri tre vlainoc. Salirono in formazione verso di lui, poi virarono all’ultimo, per sfuggirgli.

Mirò con calma, calcolava sempre un anticipo e tirava il grilletto al momento giusto.

Partì il primo colpo. Il volatile fu infilzato in pieno, e andò in vite.

Ne mirò un altro, sentì lo strattone del terzo animale che rimaneva appeso e tendeva a tirarlo giù. E tenne conto anche di questo mentre mirava.

Sparò.

Centro anche sul quarto! Lo vide precipitare e poco dopo ne sentì il contraccolpo. Ora li aveva tutti e quattro a carico. Il quinto ormai era in fuga e lui non aveva più arpioni, la caccia era finita.

Si accorse che planava troppo forte. Afferrò le due grosse leve che arrivavano da dietro, all’altezza dei fianchi. Tirò forte. Le ali, mediante un complesso meccanismo a ingranaggi, sbatterono lente. Rimandò indietro le leve con fatica e ripeté l’operazione. Le ali sbatterono ancora imprimendo portanza. L’angelo lottava contro l’aria per farsi sostenere. Mosse indietro le leve e poi tirò ancora. Un altro sbatter l’ali potente si scatenò, sentì che poteva bastare, aveva ripreso a planare in modo regolare.

Virò in mezzo alle torri successive e scese. Scese verso la sua famiglia.

Le prede appese toccarono terra prima di lui, strisciando sull’erba e sui sassi. Arrivò vicino al suolo. Mandò indietro le leve e poi tirò ancora, le ali si mossero un’ultima volta, possenti. E gli permisero di atterrare dolcemente. Subito si ripiegarono.

Midro gli corse incontro e lo abbracciò: «Papà!» strinse più forte che poteva.

Dreisa che avanzava subito dietro gli arrivò davanti, lo tirò a sé prendendolo per la giacca e lo baciò.

«Non hai sbagliato un colpo!»

«È andata bene. Barattando questi avremo pelli calde per la notte e viveri».

Gannikar si sganciò le cinghie dello spallaccio e la cintura coi rulli. Dreisa l’aiutò. Mediante una manovella arrotolarono le funi.

Midro estrasse i dardi dai vlainoc aiutandosi con un pugnale e li posizionò sul carretto. Poi, tutti insieme, vi caricarono anche l’attrezzatura alare e la balestra.

Iniziarono a spingere, era ora di tornare a casa.

Capitolo 2
Gannikar e la sua famiglia arrivarono sulla collina. La Fortezza Umnok, vista da quel punto, appariva ancora più imponente e tetra, ma la natura aveva preso il sopravvento. La vegetazione la accerchiava, le piante rampicanti la ghermivano ogni giorno di più. L’immenso maniero degli stregoni neri si sgretolava col tempo.

Non si sapeva molto delle terribili orde del Nord, ma la leggenda narrava che i massacratori facessero parte di quelle schiere. E che fossero i meno pericolosi, in quanto mostri solo a metà, e soltanto di notte.

I massacratori erano in guerra con gli uomini da almeno mille anni. E tutto quello che c’era di documentato su pergamena non arrivava a un’epoca così remota, per cui la storia antica, tramandata a voce, era divenuta confusa.

Si raccontava che gli stregoni neri, nel disperato tentativo di salvarsi, avessero infuso la bestialità delle orde in alcuni uomini, creando abomini. E c’era chi giurava che anche oggi, in alcuni sfortunati, restasse latente una forza demoniaca pronta a esplodere all’improvviso. C’era chi lo giurava, ma Gannikar era sicuro che fossero solo degli invasati.

Raggiunsero le porte del villaggio di Alekma dopo una mezza giornata di cammino. C’erano intorno, tanti grassi mammiferi pelosi che pascolavano lenti masticando l’erba. La loro carne era insipida rispetto a quella dei vlainoc, considerati merce pregiata e venduti a chi poteva permettersi di comprarli. In pratica, i grassi mammiferi erano per i poveracci, i vlainoc per gli abbienti.

Due uomini nascosti tra gli alberi, armati con balestra e spada, fecero un cenno di saluto, erano le vedette esterne. Permisero loro il passaggio. Una palizzata proteggeva le case in legno e pietra della comunità e proprio in quel momento un portone si spalancò per farli entrare.

In mezzo alle abitazioni sorgeva il Korvho, un palazzo massiccio dall’architettura arcaica. Una rocca che doveva assicurare sempre un’estrema difesa.

L’arconte qui risiedeva e amministrava il suo potere. Era il capo, era la Legge e il suo volere non si poteva discutere. Era anche il sacerdote del culto del Sole e da lui dipendeva l’intercessione per avere buoni raccolti o per evitare epidemie tra il bestiame.

Ogni villaggio degli uomini aveva il suo arconte e ogni villaggio era una comunità a sé. Difficilmente nascevano alleanze, tranne quando diventavano necessarie per fronteggiare gli attacchi dei massacratori. Ma in questi casi si portavano dietro scarsa collaborazione.

Spinsero il carretto carico di selvaggina sul sentiero principale del villaggio. C’erano persone che andavano e venivano, indaffarate a portare pelli e casse di legumi, oppure ferme davanti alle case, a lavorare con attrezzi in legno.

In mezzo alla piazza principale c’era la grande pompa meccanica, con ingranaggi sempre in movimento grazie ai moltiplicatori che sfruttavano il vento e tiravano su acqua. Acqua a disposizione di tutti.

Due bambini vennero incontro a Midro correndo. E lui alzò gli occhi a suo padre aspettando un segno di assenso per seguirli nei giochi. Gannikar sorrise e annuì. E in tre corsero via lungo la staccionata della casa del fabbro, per chissà quale avventura scaturita dalla loro fantasia.

«Gannikar, vedo che hai fatto buona caccia, oggi!» disse Tskall, un altro cacciatore di vlainoc, che si avvicinava camminando tranquillo.

«È andata bene. Vado al Korvho, per barattarli con ciò che mi è utile».

«Ti propongo una sfida: chi di noi abbatterà più vlainoc in un sol giorno avrà diritto a prendersi anche quelli dell’avversario. Che ne dici?»

«Mi alletta. Ma non vorrei farti piangere come una donnicciola quando mi vedrai partire col frutto della tua caccia».

«Ah, ah, ah! Riderò invece... riderò perché resterai a mani vuote».

«Ci vediamo alla Fortezza, allora. Ma ricordati che sarò io a fare il bottino più grosso. Vedrai!».

Tskall rise ancora.

«Quando saremo lassù, mi vedrai volare più in alto di te, l’unico tuo vantaggio sarà rinfrescarti alla mia ombra».

Dreisa strinse la mano di Gannikar e lo tirò per sottrarlo a quella stupida perdita di tempo. Tskall non aveva una donna intelligente che lo guidava nelle scelte, per questo era pericoloso. Tutto il profitto che ricavava dalla caccia lo sperperava barattandolo con giare di idromele e con qualche ora passata insieme a donne compiacenti. Lei non voleva che Gannikar lo frequentasse, perché poteva cambiarlo.

Ma la sfida era ormai lanciata e accettata. Tskall puntò il dito su Gannikar e strinse un occhio. Rise beffardamente, li superò e se ne andò per la sua strada, probabilmente pregustando la futura vittoria.

Dreisa non era per niente contenta per come il suo uomo cadesse in simili tranelli. Rischiare la vita ogni giorno per sfamare la famiglia era necessario, ma aumentare i rischi in una stupida competizione poteva renderlo meno accorto e condurlo alla morte. Cosa avrebbe fatto senza di lui? Che futuro avrebbe avuto suo figlio, visto che non era ancora un uomo? Puntò Gannikar stizzita. Lui ebbe una smorfia d’imbarazzo e guardò altrove, sicuro che la tempesta sarebbe passata presto.

Camminarono in mezzo alla gente, fino alla struttura centrale: il cuore del villaggio, il Korvho.

L’entrata era sorvegliata dagli armigeri dell’arconte. Questi osservavano chi entrava e chi usciva con distacco pronti a bloccare i turbolenti o chi a intuito sembrava rappresentare un pericolo. Alcuni di loro non erano neppure del villaggio, molti venivano assoldati tra gli esiliati erranti, gente scacciata dalla terra natia.

Gannikar abbassò lo sguardo per non provocarli, era vero che la guardia armata risultava dura con i villici, ma era anche vero che rappresentava la miglior barriera contro i massacratori. E la difesa, in questi anni bui, era importante.

***

Entrarono nel palazzo, che si allargava in un grande atrio rotondo, con ruvide pareti in pietra illuminate da innumerevoli fiaccole. Al centro, rialzato da alcuni gradini c’era un trono in legno finemente intagliato. L’arconte, comodamente seduto su quello scranno dava udienza.

C’erano cacciatori, donne che offrivano il loro corpo, mercenari di guardia e galoppini che trattavano gli affari per il loro padrone.

Gannikar notò subito, fra tutti, un gruppo di emissari del villaggio di Emyria. Avevano il vessillo del fuoco stampato sull’armatura. Quello più alto, che doveva essere il capo, parlò.

«Emyria è stata attaccata due volte, in questi giorni. Siamo a chiederti rinforzi. Devi mantenere il nostro patto di alleanza, come noi abbiamo fatto quando siete stati attaccati».

«Un debole patto!» gracchiò l’arconte con la sua voce stridula, «avete portato aiuto pretendendo un tributo esoso. I vostri soldati mi sono costati quasi la metà delle mie risorse. L’arconte di Emyria è troppo avido. Rivoglio indietro ciò che vi ho dato! Solo così vi aiuterò».

«I massacratori hanno bruciato i magazzini del villaggio, li abbiamo respinti a fatica e intanto gran parte dei viveri, delle pelli e tutta la riserva di idromele sono andati perduti nell’incendio».

«Allora dovrete respingerli ancora... ma da soli! Non muoverò un solo soldato per voi».

Il pugnale dell’uomo di Emyria scivolò fuori dal fodero talmente veloce che nessuno ebbe il tempo di vederlo e saettò fulmineo piantandosi nel legno del trono proprio sopra il capo dell’arconte. Tutti nel Korvho si zittirono. Lo stesso arconte aveva le parole gelate in gola. Le guardie si fecero avanti, estrassero le spade e, proteggendosi dietro gli scudi, si prepararono alla battaglia.

I soldati di Emyria sganciarono le asce legate sulla loro schiena e le impugnarono pronti a tagliar teste.

«Probabilmente moriremo domani» disse il loro capo, «quindi morire oggi per noi non fa differenza. Bisogna solo scoprire quanti di voi ci seguiranno, forse saranno proprio quelli che chiedevamo come rinforzo. Adrio: sta pronto col pugnale!»

Adrio aveva già la mano alzata e teneva il pugnale per la lama, pronto a lanciarlo.

«Tranquillo Draxo, lo serbo per la fronte dell’arconte!» sorrise.

L’arconte alzò piano il braccio e parlò con voce tremante.

«Lasciateli andare. Ammiro il loro coraggio, avranno presto l’occasione di vantarlo davanti ai massacratori».

Abbassò lentamente il braccio e le guardie rinfoderarono le spade. I soldati di Emyria agganciarono le asce alle schiene, si voltarono senza dare il saluto regale in segno di disprezzo e se ne andarono.

Nella sala del trono nessuno parlava, l’arconte era immobile e visibilmente spaventato, ma tutti dipendevano da lui, aveva appena dimostrato codardia, eppure col potere che possedeva, avrebbe potuto decretare la morte di un uomo anche solo per sfogarsi.

I diaconi del Sole si avvicinarono.

«Lasciate che il Sole vi guidi per uscire dal buio, potente arconte. Questo è il desiderio del popolo».

«Sì» rispose lui altezzoso, «il Sole mi ha già dato un segno. Ed è per questo che ho rifiutato l’aiuto a Emyria, presto i nostri soldati difenderanno Alekma e lo faranno con successo! Non ho altro da dire».

Quest’affermazione ristabilì la normalità e tutti ripresero l’attività che svolgevano prima dell’affronto emyriano. Le donne iniziarono a strofinarsi addosso ai loro clienti e i galoppini portarono avanti le trattative coi contadini e con i cacciatori.

Venne il turno di Gannikar. Un galoppino gli si mise davanti e senza dire nulla esaminò i vlainoc, poi gli offrì tre pelli, una cassa di legumi e tre pezzi di carne secca. E aggiunse: «Ti sembra poco?»

«Non mi sembra poco. Va bene così» si affrettò a rispondere Gannikar, anche se era evidente che era poco. Purtroppo non si poteva vendere la merce ad altri e il prezzo lo faceva il compratore, soprattutto se era l’unico.

Prese ciò che gli avevano dato, aiutato da Dreisa, e uscì.




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