sabato 22 giugno 2024

L'ultimo giapponese


 

Continuo a scrivere, come l’ultimo giapponese che combatte su un’isola dimenticata del Pacifico nonostante la guerra sia finita da tempo. Scrivo ma solo quando ne ho voglia e scrivo solo fantascienza, anche se nessuno la legge più. Perché la fantascienza si vede al cinema, straripante di effetti speciali, è inutile cercarla sulle pagine di un libro.

Sto scrivendo qualche racconto breve e qualcuno un tantino lungo. Li invio alle selezioni per le antologie ma non mi aspetto niente, sono stanco di aspettare. Ho già preparato la copertina per il volume che autopubblicherò, dopo non aver ricevuto segnali di vita dai ricettori del materiale che ho inviato.

L’immagine è la prima che non ho disegnato io, questa l’ha creata l’Intelligenza Artificiale. So bene che è piuttosto banale, ma a me piace. E poi non è che le mie immagini, quelle disegnate per gli altri miei libri, siano dei capolavori. Sicché questa va benissimo.

Intanto proseguo nel mettere insieme parole, chissà che non mi venga in mente qualcosa di veramente forte. Oppure, forse l’unica cosa di forte potrebbe venirmi sotto forma di mal di testa...

giovedì 13 giugno 2024

Un racconto di fantascienza

 


SIMULAZIONE

© 2016 Marco Alfaroli


Non c’era nient’altro oltre al deserto. Fino all’orizzonte si vedevano solo dune di sabbia.

L’atmosfera venefica, ricca di cloro, colorava di giallo il cielo. Tre lune argentee ammiccavano sul paesaggio da dietro le nuvole. La temperatura al suolo, alta, quasi infernale, sembrava non permettere la vita.

In teoria.

Ma la vita, a dispetto della teoria, trova sempre il modo di saltar fuori.

Il vento sollevò la sabbia. I granelli, volando tutti i insieme, si aggregarono in una forma indefinita, un cumulo che si mosse mostrando coscienza di sé. Vicino al primo, dopo un’altra folata, si formò un secondo mucchio. Entrambi si fronteggiarono.

«Vuoi vedere che cosa ho imparato dal visitatore del cielo?»

Non era proprio una voce. Il vento sibilava in mezzo ai vuoti lasciati dai granelli che si muovevano nell’aria. Il vento fischiava e la sabbia parlava.

«Sì, voglio vedere, ma dov’è il visitatore?»

«Qua sotto. Mi ha insegnato molte cose, guarda!»

Si alzò più forte il vento, altra sabbia iniziò a volare e si formò un vortice che aggregò milioni di granelli. Erano in continua evoluzione; poi presero forma. Dapprima fu solo una colonna confusa, poi divenne un busto da cui partirono due braccia. Alle estremità si formarono le mani, ognuna con cinque dita. Il busto si allungò e due gambe presero consistenza terminando con piedi ognuno provvisto di cinque dita.

Il vortice proseguì la sua opera e sul busto si aggregò una testa. I granelli, volando veloci, modellarono il naso e le orecchie. Si formò una fessura orizzontale sotto il naso e creò la bocca.

Più in alto, si formarono due fosse che prepararono lo spazio per gli occhi. Poco dopo si completarono in tutti i dettagli.

«Che cos’è?»

«Chi è, volevi dire».

«È il visitatore arrivato dal cielo, vero?»

«Sì».

«Voglio vedere l’originale, non la tua simulazione».

«Non si può, ora è lontanissimo. È intelligente come noi, ma non potremo parlarci. Lui ha tentato l’impossibile per incontrarci, ci ha inviato un emissario per spiegarci com’è fatto, dove vive e quali sono i suoi sogni».

«Questo è tutto quello che avremo di lui?»

«Sì».

Il secondo mucchio di sabbia si afflosciò un poco. La tristezza lo afflisse.

L’altro soffiò fortissimo, il vento turbinò impetuoso e la sabbia prese a volare. Si spostò, spazzata via, scoprendo ciò che nascondeva. Era semisepolto, ma s’iniziava già a intravedere.

Il vento lavorò ancora, senza tregua e alla fine l’emissario emerse completamente.

Era una sonda, fatta di metallo e ammaccata per la caduta. La sua parabola era contorta e le antenne piegate. La targa in oro con le informazioni inviate dalla Terra era fuoriuscita nell’impatto, ma aveva onorato il suo compito. Aveva descritto i terrestri e il loro mondo all’intelligenza locale.

Il relitto affogato nella sabbia poteva essere immaginato come il messaggio in una bottiglia. E il messaggio era arrivato a chi doveva leggerlo. Missione compiuta!

Eppure gli alieni, per quanto intelligenti fossero, non riuscirono mai, negli anni a venire, a tradurre il nome di quell’astronave. Il nome che gli uomini avevano scelto per il loro messaggero meccanico, che era riuscito ad arrivare là, dove nessuno era mai giunto prima.

Quel nome era Pioneer 11.

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