lunedì 24 dicembre 2018

Buon Natale


 
Buon Natale a tutti… o quasi.
Per questo Natale sono un tantino amareggiato. La Befana dei vigili del fuoco è tornata a Cascina, con un nuovo team e addirittura con i paracadutisti ad arricchire l’evento.
Sarà un successo! Pompieri e Parà blindati insieme per rievocare la simpatica vecchina e far sorridere tanti bambini.
Tuttavia sono triste perché nessuno mi ha cercato per fare qualche nuova illustrazione e quelle che avevo realizzato per le precedenti manifestazioni sono state messe da parte. Circola già la locandina con i disegni di un “altro”, o magari presi da immagini stock in rete.
Cancellato senza neppure una telefonata. Che simpatici colleghi che ho…
Buon Natale a tutti meno che a loro.

domenica 16 dicembre 2018

Bene, Male o Caos?


Il Diavolo abbassò una leva e girò due manopole, lo schermo rotondo posto in mezzo all’intreccio di tubi divenne sempre più brillante e il vapore scaturì da dietro la macchina.

«Eccolo! Eccolo! Ne arriva un altro!» esultò.

Un lampo fuoriuscì dallo schermo e lo illuminò, inebriandolo dell’energia che bramava. La grotta divenne rossa per un attimo, poi la luce svanì.

«Uno!» si innervosì «Oggi soltanto uno! Non posso andare avanti così».

Si tormentò nervosamente la barba. Specchiandosi nello schermo vide con soddisfazione la propria immagine riflessa: villoso, forte, rosso e soprattutto cornuto! Proprio come l’avevano immaginato gli umani.

Ma era stata davvero la scelta giusta? Quell’altro era stato più furbo.

Fare del bene? Gli uomini non ne sono capaci, aveva detto. Se scegli il Male parti in vantaggio. E poi ti do una copia della macchina che ho inventato, vedrai… giocheremo ad armi pari.

Maledetto imbroglione! Perché si era fidato di quel genio spregevole e subdolo? Perché due entità così potenti dovevano essere costrette a dividere lo stesso mondo?

Il Diavolo cambiò aspetto per rabbia!

Divenne un uomo alto e biondo, poi si trasformò in Ciclope e infine in Satiro. Effettivamente il Satiro somigliava molto al Diavolo. Sorridendo, pensò a quanto fosse misera la fantasia degli esseri umani. Rise anche per quanti nomi avevano inventato per lui: Satana, Mefistofele, Demonio, Lucifero… tutte sciocchezze.

Beh, non era il momento di abbattersi. L’energia rossa perdeva sempre più terreno rispetto a quella azzurra, ma lui aveva un asso nella manica: il familio organico stava raggiungendo la roccaforte del suo nemico, di quell’essere odioso che gli umani chiamavano Dio.

Poveri ingenui, non lo conoscevano veramente: quel falso Dio furbacchione aveva mandato un suo familio oltre la barriera dimensionale. E questo, appena arrivato sulla Terra, aveva dato a bere agli umani un mucchio di fandonie, assicurando al capo un’incredibile schiera di seguaci. Gli spiriti vitali dei morenti erano captati dalla macchina solo se credevano e grazie a quello stratagemma divenivano sorgente per l’eternità!

La voce di Dio arrivò imperiosa dal condotto principale: «Lucifero!».

«Puoi evitare di chiamarmi così? Non c’è nessun umano qui. Esci dalla parte, ogni tanto… siamo solo tu e io».

«Hai inviato un emissario per carpirmi qualche segreto?»

«L’hai scoperto? Com’è possibile? l’avevo istruito così bene...»

«L’ho stritolato! Non provarci più, non mi piace chi gioca sporco».

«Senti chi parla! Sono sempre più a corto di spiriti e tu sapevi che sarebbe finita così. Gli umani non credono più in me! E anche se continuano a compiere efferati delitti, i loro spiriti vitali si perdono nell’etere. Non riesco ad assorbirli».

«Ancora molte persone credono».

«Certo, i superstiziosi. Quelli che hai ingannato col tuo emissario».

«Ho dato loro una speranza».

«Scendi dal piedistallo, ipocrita! Tu vuoi solo la parte di questo mondo che ancora controllo. Non t’importa niente di loro».

«Non è vero» protestò Dio. «Loro contribuiranno alla vittoria del Bene sul Male».

«Ma che Bene e Male delle mie corna! La verità è che hai scelto per primo. E poi secondo me i tuoi adoratori ti hanno montato la testa, sei impazzito».

Attraverso il condotto arrivarono una decina di sibili, seguiti da un alone azzurrognolo. Il Diavolo strinse i pugni stizzito.

«Dieci! Hai preso dieci spiriti e ostenti la luce attraverso il condotto per schernirmi!» Colmo d’ira sollevò un masso e ostruì con violenza il condotto. La voce di sua Immensità, l’Altissimo, giunse attutita dalla pietra.

«L’azzurro avanza» disse. «Presto non avrai più dove nasconderti e ti annienterò. Hai paura, vero?»

Il Diavolo sentì un brivido lungo la schiena, l’imbroglione aveva ragione. Se quel ritmo di dieci a uno fosse continuato non ci sarebbe voluto molto per l’arrivo della fine.

Eppure doveva reagire, bisognava creare un altro familio, in fretta. Magari piccolissimo, in modo che fosse difficile vederlo. Già, ma poi come avrebbe fatto a rubare la macchina? Quella macchina che l’altro aveva inventato per inviare il suo emissario sulla Terra e che teneva gelosamente nascosta chissà dove? Il Diavolo si grattò la testa. Poter mettere gli artigli su quella macchina avrebbe significato inviare il proprio emissario a far proseliti. Ovviamente insistendo sul Male.

L’Anticristo!

Quello sarebbe stato il nome del familio in missione. Le sciocchezze che avrebbe raccontato erano già pronte, inventate nel corso dei secoli dagli umani. E magari avrebbe potuto rendere tutto più credibile compiendo qualche atto cruento contro i preti, in modo da attrarre i satanisti.

Sì, sì, sì!

Il piano era pronto, mancava solo la macchina. Impastò un familio molto piccolo, provvisto di ali. Gli soffiò in faccia il suo volere e lo guardò partire. Poi il Diavolo si volse alla macchina capta-spiriti, armeggiò con leve e bottoni, finché non mise a fuoco un centinaio di situazioni. Cambiò l’aspetto da Satiro in splendida donna e lanciò tentazioni a raffica. Il sesso era la sua arma più banale, ma dava ancora buoni risultati.

***

Dio si alzò dal trono che si era costruito. Per quella giornata aveva assunto l’aspetto classico: uomo vecchio e saggio, con folta barba grigia e capelli d’argento, avvolto nella tunica regale del Regno d’Israele. Era sempre stato molto gigione e gli sarebbe piaciuto andare direttamente sulla Terra per farsi ammirare dagli adepti, ma la macchina inventata non era in grado di trasferire l’intera sua entità che comunque sarebbe stata instabile nella dimensione degli umani. Così dovette accontentarsi dell’invio di un galoppino, un misero familio organico che eseguì alla lettera i suoi ordini.

Si avvicinò all’apertura panoramica della fortezza. Pensò al Diavolo e rifletté su quante difficoltà stesse passando per risolvere quel problema. Si trasformò in Zeus che aveva un aspetto decisamente più vigoroso. Brandì la saetta scatenando scintille ovunque e sentì la gloria dell’antica Grecia scorrere dentro di sé.

Come era stato più facile prima dell’arrivo dell’altro rappresentante della sua specie. Maledì la cometa che aveva impattato sul suo mondo portandolo in dono, in fondo lui era arrivato per primo, perché doveva avere un rivale? Ai tempi dell’antica Grecia non ne aveva avuti, era stato il padrone assoluto e si era divertito a impersonare tutti gli dei dell’Olimpo. Gli umani non si erano accorti della mancanza di differenze.

Purtroppo tutto era cambiato con l’arrivo di quell’altro.

Per fortuna, l’invasore era un sempliciotto: immaturo, inesperto e sicuramente meno intelligente. Era giunto potente grazie all’energia della cometa, ma lui era riuscito a tenerlo a bada. Lo aveva incantato con la sfida, lo aveva convinto che il Male era più conveniente, ma sapeva da sempre che la Speranza dei mortali era l’arma che l’avrebbe sconfitto. E presto, ne era sicuro, se lo sarebbe tolto dai piedi.

L’Immenso si trasformò in Odino, il dio monocolo dedito alla guerra che ammirava la forza e il coraggio dei suoi Vichinghi. Ai tempi, quella era stata un’interpretazione divertente! Peccato che la storiella di Dio gli fosse sfuggita di mano e i nordici avessero finito per convertirsi alla religione del vecchio barbuto.

Scacciò quei pensieri, l’importante era essersi assicurato un flusso continuo di spiriti vitali. Doveva restare concentrato sull’obiettivo.

Un rumore attirò la sua attenzione. Si precipitò nella stanza segreta dove custodiva il teletrasporto dimensionale con un brutto presentimento. Appena l’aprì scoprì il piccolo familio svolazzante sulla macchina.

Il fatto di essere Odino e avere un occhio solo non l’aiutò certo a colpire l’infiltrato. Fallì il colpo d’ascia un paio di volte e quello riuscì a scappare.

Pochi istanti dopo arrivò, dal condotto, la voce trionfante del Diavolo: «Ce l’ho fatta! L’ho vista! D’ora in poi la vedrò sempre, ovunque la nasconderai!»

«Non illuderti, non sarà facile prenderla».

«Costruirò centinaia di demoni e ti attaccherò».

«E io costruirò centinaia di angeli, sarà un Armageddon».

«Ti vedo, vecchio balordo! Sei nella parte del guercio. Semmai sarà un Ragnarok».

Trascorsero solo poche ore e dalla parte rossa del pianeta giunsero schiere di demoni urlanti, alcuni neppure completamente formati, per la fretta che il Diavolo aveva avuto nell’impastarli. Da parte sua, l’Onnipotente attivò gli angeli, riuniti in stormi e armati di trombe sputaghiaccio.

Lo scontro avvenne sulla linea di confine: i demoni lanciafiamme incendiarono e gli angeli congelarono. Terrore, morte e distruzione calarono inesorabili su tutto e a fine giornata, sul campo, restò solo una sterminata massa di cadaveri.

***

Era finita in un noioso pareggio. La situazione di stallo convinse i signori della guerra a concentrarsi sull’assorbimento degli spiriti per ricostruire gli eserciti e ricominciare l’attacco il più presto possibile.

L’Onnipotente assunse l’aspetto di Maometto, si sistemò in piedi davanti alla macchina e armeggiò con leve e manopole assistendo, sullo schermo, a uno scontro sanguinario. Se l’avesse visto un terrestre del 1980, avrebbe creduto che stesse giocando con un videogame da sala giochi.

«Venite a me… Ah, ah, ah!» rise Dio, traboccante di sadismo. «Che seguiate Yahweh o Allāh, venite a me!»

Premette il piede su una specie di acceleratore e inoculò motivazione a pioggia, poi portò al massimo una manopola per imprimere meglio la sua immagine in quelle menti deboli. I risultati non si fecero attendere: decine di morti trasmisero i loro spiriti, ci furono lampi e scintille, e una prolungata luce azzurra lo investì rendendolo sazio e soddisfatto.

Trasalì un attimo più tardi, quando vide il mostro che avanzava nello spazio. L’Altissimo si rese conto di essere impotente di fronte a ciò che era immensamente più grande di lui.

Anche il Diavolo si dava da fare con la macchina per attrarre qualche spirito vitale. Certo, senza l’Anticristo in campo c’era da lavorare parecchio, ma lui non disperava. Mise a fuoco un tizio che stava per uccidere la moglie, misurò la sua coscienza: temeva di finire all’inferno, era combattuto…

Era perfetto! Bastava dargli un aiutino!

Iniziò a instillare tentazioni: Fallo! Sarai libero! La tua amante non dovrà più nascondersi. Finalmente vi amerete alla luce del sole… e poi l’assicurazione: darai la colpa ai ladri e potrai riscuoterla. Fallo!! Fallo!!!

L’uomo inferse almeno venti coltellate e la uccise, il sangue si sparse ovunque. Gettò il coltello, si tolse i guanti e si apprestò a distruggerli, per essere sicuro di non lasciar tracce. Ma il Diavolo azionò l’aggregatore di materia, per piccole quantità funzionava piuttosto bene. Così una chiazza d’olio si materializzò proprio sotto i piedi dell’assassino che scivolò cadendo all’indietro e sbatté violentemente la testa contro un mobile. Morì all’istante.

il racconto contua su Amazon, insieme agli altri undici racconti

mercoledì 12 dicembre 2018

Telepati


Darkest Minds non è un film ambientato in un futuro distopico, com’è imprecisamente scritto su Wikipedia. O meglio, la distopia c’è ma è solo la conseguenza dell’evoluzione della specie, causata da una misteriosa epidemia.
Il film introduce una figura importante della fantascienza, troppo spesso ignorata da Hollywood, il Telepate. Purtroppo il target di riferimento sono ancora gli adolescenti, come è già successo per Divergent e Maze Running. E il sospetto è che questi film tratti da romanzi estremamente recenti siano fatti tutti con gli stessi ingredienti: distopia, epidemie, zombi, superpoteri e protagonisti giovanissimi.
La storia si intreccia attorno alla paura dei normali nei confronti dei bambini sopravvissuti all’epidemia, che hanno sviluppato poteri mentali e fisici. Per questo vengono classificati dal governo in cinque colori: i verdi (superintelligenti) i gialli (che dominano l’elettricità), i blu (telecinetici), i rossi (mostri sputafuoco) gli arancione (telepati).
Il mutato più pericoloso per i normali è senza dubbio l’arancione, capace di dominare le menti di tutti quelli che gli stanno intorno, capace di leggere i pensieri, modificarli e inserirne di nuovi. Praticamente il Mulo della trilogia della Fondazione di Isaac Asimov!
Chissà, forse sarebbe stato migliore un film realizzato su un classico di Van Vogt: “Il segreto degli Slan”. Ma probabilmente non sarebbe stato conveniente dal punto di vista commerciale, perché gli adolescenti sono una miniera d’oro, per fedeltà alle saghe e per il merchandising. E nel romanzo di Vogt sono assenti.



Però volete mettere la differenza dell’idea di base e la forza narrativa in un numero di pagine così ridotto?
Gli Slan sono una nuova specie nata dagli esperimenti genetici del professor Samuel Lan, sono telepatici e si riconoscono facilmente perché hanno le antenne. Gli Umani li temono e li perseguitano, eppure il protagonista Slan scopre l’esistenza di una terza specie: telepati senza antenne che non vedono l’ora che gli Slan siano estinti per poter dominare gli Umani in santa pace. Si tratta di un meccanismo formidabile, talmente azzeccato che Hollywood non l’ha preso neppure in considerazione.



lunedì 10 dicembre 2018

Un racconto da Inumani



Ozxad manovrò la cloche per diminuire la velocità della nave, abbassò tre leve sulla consolle e sentì zittire i motori di poppa. Ammirò per qualche istante le stelle in quel sistema casa dei suoi acerrimi nemici: gli umani!
Era troppo tempo ormai che si trascinava la guerra spietata, costata già l’esistenza a sei colonie del suo popolo. Bisognava metter fine al massacro, non c’erano alternative: una delle due specie doveva soccombere e Ozxad aveva ben chiaro in mente quale dovesse essere.
Il riflesso della sua immagine nel vetro della plancia lo inorgoglì, non c’erano esseri più belli e fieri di lui e di tutti quelli come lui nell’intera Galassia. Eppure quei ripugnanti umani si consideravano molto più belli e lo ritenevano addirittura un mostro. Mosse lento i tre occhi sporgenti da destra verso sinistra per seguire il pianeta che gli stava scorrendo davanti, sapeva che gli umani lo chiamavano Marte in onore di un loro antico dio della guerra. Ozxad contrasse i suoi tentacoli per la rabbia! Dannato dio della guerra e dannati umani attaccati alle loro stupide religioni!
Controllò il display: motori spenti. Nessuna energia residua. Avrebbe proseguito per inerzia e probabilmente sarebbe sfuggito ai sensori nemici, o almeno così sperava.
Si alzò dalla postazione e con le ventose dei tentacoli avanzò appiccicandosi al soffitto, al pavimento e alle pareti. Raggiunse la stiva di poppa. C’era la bomba che l’aspettava, sorniona, luccicante e zeppa di morte. Osservò le spie che brillavano con regolarità. Tutto era a posto. Avere un ordigno del genere così vicino metteva paura, averlo attaccato sotto la nave, invece, sarebbe stato meglio... per sentirsi più tranquilli, anche se ai fini della pericolosità non ci sarebbero state differenze: se fosse esplosa, fuori o dentro, avrebbe distrutto la nave comunque. Ma la bomba era organica e risentiva degli influssi del vuoto assoluto, per questo doveva restare immersa nella sua atmosfera fino a poco prima dell’impiego. Certo, quando fosse stata lanciata avrebbe iniziato a deteriorarsi, e proprio questo era il fattore innescante.
Una spia cambiò colore, da verde divenne rossa, lampeggiò con frequenza tripla rispetto a prima e Ozxad impallidì. Subito si dette da fare con le leve laterali; dall’alto calarono spruzzi di vapore viola e poi altre sbuffate che sfumavano sull’indaco. Alla fine la bomba si stabilizzò e Ozxad poté rilassarsi. Si voltò verso la plancia e appiccicando veloce i tentacoli si diresse al posto di guida. Una volta piazzato tornò a controllare la strumentazione, Marte era ormai alle spalle e la Terra era in vista. Scrutò i parametri energetici, nessuna scia rischiava di tradirlo. Lanciò l’ennesima scansione della zona, nessuna astronave terrestre di guardia. Questo era strano, ma pensò che un po’ di fortuna a volte non guastava.
La vibrazione della consolle lo avvisò della comunicazione in arrivo. Ozxad premette un pulsante e l’ologramma di un suo simile gli comparve davanti. Le vibrazioni, il sistema comunicativo della sua specie, emanate dal suo interlocutore, gli furono trasmesse dal computer attraverso ogni parte solida della nave.
Sentì la situazione intorno al suo mondo: la flotta terrestre stava forzando il blocco, i difensori si battevano con valore ma non riuscivano ad arginare gli invasori. Vide il secondo pianeta del suo sistema esplodere... quei dannati avevano lanciato i missili antimateria. Non si fermavano dinanzi a niente, non si facevano scrupoli, distruggere era il loro credo e sembrava che si divertissero a farlo. Dannati per l’eternità! Per fortuna la sua specie non era così meschina... per fortuna o per disgrazia, perché sopravviveva sempre il più aggressivo, l’esperienza gliel’aveva amaramente insegnato. Ricordò le storie così diverse dei due mondi in lotta. I terrestri si erano evoluti come predatori, erano onnivori intelligenti che per sopravvivere dovevano mangiare carne, oltre ai vegetali, sapevano difendersi dai carnivori e sapevano che nella vita dovevano azzardare per riuscire. Il loro istinto predatorio li aveva guidati fino al raggiungimento dell’era tecnologica. E oggi li guidava alla conquista delle stelle.
I garlas invece, la sua gente, si erano evoluti come pacifici erbivori e non avevano mai avuto carnivori intorno a minacciarli, forse perché nelle loro vene scorreva sangue velenoso, talmente velenoso da rischiare auto-infezioni se accidentalmente si fossero feriti. Forse per questo i carnivori, sul loro mondo, si erano estinti. O almeno, questo avevano detto gli scienziati esaminando i resti degli animali preistorici: quel veleno era frutto di una mutazione che aveva dato una chance agli erbivori, una chance che i cugini terrestri non avevano avuto. L’istinto dei garlas però non era predatorio; data la loro natura, ciò che li guidava era la prudenza. E in questo, Ozxad sentiva di avere qualcosa in meno rispetto agli umani, qualcosa di negativo in meno, naturalmente, ma che rischiava di essere fatale.
L’ologramma trasmise altre vibrazioni, l’espressione del suo simile divenne disperata, Ozxad sentì di essere l’ultima speranza dei suoi. L’ologramma svanì e Ozxad, più deciso che mai, attivò la bomba. Si voltò e la guardò mentre scompariva lenta nella botola che le si era aperta sotto. Attraverso il display la vide spuntare sotto il ventre della nave, pronta a essere sganciata. I parametri sulla consolle gli confermarono il deterioramento della materia organica, l’ordigno era innescato!
Fu in quel momento che il ricordo dell’umano che avevano catturato tornò a tormentarlo. Era stato difficile tradurre il suo linguaggio incomprensibile, isolarlo dai suoni disturbanti che emetteva parlando e convertire tutto in vibrazioni, in modo da capire.
Ozxad era stato presente all’interrogatorio, l’umano era apparso sincero da subito. Si trattava di un soldato che non condivideva gli obiettivi dei suoi comandanti, odiava la guerra ma era costretto a combattere. Aveva gridato che sulla Terra non c’era libertà, un regime oppressivo li obbligava ad attaccare i garlas e tanti terrestri erano innocenti e avrebbero voluto essere amici.
Ozxad vibrò per la tensione. Pensò alla bomba! Una volta lanciata sarebbe esplosa nell’atmosfera terrestre annientando ogni forma di vita. Avrebbe ucciso milioni di umani, tra loro anche i pacifisti che soffrivano sotto l’oppressione di quel regime. Eppure non c’era scelta. Gli umani avrebbero fatto altrettanto se si fossero trovati in quella situazione. Un umano al suo posto non avrebbe esitato a lanciare quella bomba.
Portò il suo tentacolo sulla leva di sgancio, ormai la nave si trovava a un passo dall’orbita esterna e bastava un gesto per sconfiggere l’odiato nemico. Ma quel gesto era un crimine orrendo e sarebbe stato lui a commetterlo.



sabato 1 dicembre 2018

Zaygo


Zaygo si alzò presto, come faceva tutte le mattine. Il suo primo pensiero, quando si svegliava, era sempre il cibo, per questo teneva alcuni squynzi di scorta.
Scese dal tubo dove si era attorcigliato per la notte e si avvicinò alla vasca al centro della stanza. Immerse la mano, velocissimo. Ci fu un fuggi fuggi generale, con schizzi d’acqua in tutte le direzioni. Prese lo squynzo più grosso al primo colpo e lo divorò dalla coda al gozzo gonfio, in un attimo. Poi infilò la testa nella vasca per bere avidamente, finché non si sentì dissetato.
Infine si vestì.
Mise la tunica rossa, simbolo di fuoco e di forza. Lui era un Lorn, apparteneva alla più forte delle tre specie dominanti di Bhlyss. Le sue squame erano azzurre e i Lorn andavano fieri di quell’azzurro; era un colore nobile, li rendeva belli e gloriosi, ma soprattutto diversi da quei maledetti Saytrac che avevano la pelle dello stesso colore di uno squynzo in avanzato stato di decomposizione. Un vero schifo.
I Saytrac non erano gli unici nemici dei Lorn. C’erano gli altri, i Tlazk: rettili piccoli, brutti e deformi. Essi non meritavano il rispetto di Zaygo, non si erano mai affidati alla forza e al coraggio per guidare il loro destino; usavano congegni per fare ogni cosa, anche per combattere.
Lui odiava i Tlazk. E il passato gli aveva dato buone ragioni per rafforzare quell’odio.
Tuttavia, dopo millenni di guerre, a un certo punto, si era arrivati a un equilibrio precario dettato dall’emergenza. Erano stati quei ripugnanti Umani a renderlo possibile. Dei mostri dalla pelle liscia, senza scaglie, con cespugli di peli sulla testa.
Zaygo ringhiò immaginandoseli davanti.
Quegli orrendi esseri erano venuti, armati fino ai denti, per conquistare Bhlyss. Ed erano riusciti involontariamente a unire tutti i rettiliani.
All’inizio, ciascun popolo aveva reagito all’invasione umana in modo indipendente, collezionando una lunga serie di sconfitte. Solo per la necessità di sopravvivere, il rancore che separava le tre specie si era sopito, pur bruciando ancora oggi, come la brace sotto la cenere.
Sebbene uniti, Lorn, Saytrac e Tlazk avevano perso la guerra e dovuto affrontare la sottomissione.
Sottomissione, rifletté Zaygo, con una smorfia di rabbia a imbruttirgli il suo grugno squamoso al solo pensiero.
Per anni la sua gente aveva dovuto sopportare l’umiliazione della schiavitù. La rinuncia alle tuniche rosse, l’obbedienza incondizionata, il lavoro forzato a fianco delle altre specie rettiliane inferiori... Era stata un’epoca di sofferenza e mortificazione per qualsiasi Lorn nato sotto il sole di Sirio.
Finché qualcosa era successo tra i conquistatori.
Aveva ancora nelle orecchie il discorso fatto da un umano chiamato il Presidente. Era giunto su Bhlyss annunciando una nuova era di fratellanza.
«Saremo vostri amici, se lo vorrete» aveva detto in un discorso pieno di retorica. «Ciò che è avvenuto in passato non accadrà mai più, perché potremo condividere con voi il bene per cui noi stessi abbiamo lottato: la libertà».
Ed era ripartito insieme agli altri invasori. Dopo tutto il male che avevano fatto, se n’erano andati mendicando il perdono dei loro schiavi e parlando di libertà concessa.
«La libertà si conquista e gli schiavi si sfruttano» disse a voce alta Zaygo, sibilando per il disprezzo.
Gli Umani non avevano mai compreso né i Lorn né la convivenza delle tre specie su Bhlyss. Di certo, non si erano guadagnati la fiducia di nessuno, nemmeno dopo la Grande Liberazione.
Con l’umore guastato da quei pensieri, Zaygo indossò l’armatura. Impugnò il guanto sicli e controllò la daga a tre lame. Lo scatto era perfetto, la ripose nel fodero.
Quando uscì all’aperto, il cielo rosso era limpido, l’aria più calda del solito. Restò fermo a riscaldare il suo sangue per qualche attimo, era piacevole farlo in quelle magnifiche giornate.
Con calma gustò il panorama, dalle alte pareti di roccia che proteggevano la valle, coperte da piante variopinte, ai muri verde smeraldo e le cupole argento e oro delle case che facevano sapere al mondo quanto fossero nobili i Lorn.
Tutta la città risplendeva.
Né i Tlazk né i Saytrac dovevano avere la possibilità di ammirare tanta bellezza mettendo piede nella sua città, lui l’avrebbe impedito.
Un forte stridio arrivò dall’alto. Vide il terreno scurito da un’ombra e alzò lo sguardo. Un gigantesco Kurr, gracchiando, passò sopra di lui e con le ali provocò un vento impetuoso.
Com’era maestoso quell’animale!
I Kurr che volavano liberi, i loro simili domati che portavano i Lorn in cielo, la sua città che prosperava all’aperto, a differenza di quelle dei Tlazk nascoste sottoterra... Ogni cosa intorno a lui gli confermava che il suo popolo viveva nella Natura più di quanto facessero le altre specie. Era giusto così, perché i Lorn esistevano per dominare Bhlyss. E se non c’erano ancora riusciti, era solo perché il destino era divenuto capriccioso, mettendosi per traverso e riservando loro quella piaga che erano gli Umani.
Zaygo decise di attraversare la piazza in pietra per raggiungere l’ampio colonnato dove venivano deposte le uova. Camminò ondeggiando il corpo con quell’andatura tanto naturale su Bhlyss quanto bizzarra per gli abitanti della Terra, perché erano abituati a veder strisciare i serpenti sul terreno.
Si affacciò sull’area a forma di conca. C’erano, tutte ordinate, migliaia di coppe riproduttive, e in ognuna era stato deposto un uovo. In lontananza vide alcune femmine occuparsi della attività non legate alla guerra. Così era stato dall’alba dei tempi; questo non perché fossero più deboli dei maschi, una femmina Lorn valeva quanto cento umane, ma semplicemente per divisione dei compiti.
Erano guerriere rispettate e combattevano solo quando dovevano difendere i piccoli. In quel caso, divenivano rabbiose e determinate più dei maschi. Zaygo ripensò all’ultima incursione Saytrac e a come le femmine li avevano scacciati dalla città senza che i maschi avessero dovuto sfoderare le loro daghe. Sogghignò e le sue zanne brillarono alla luce di Sirio A.
«Zaygo, ti senti forte oggi?» lo richiamò Drigo, un altro valoroso guerriero. Come lui, si muoveva in modo sinuoso, da vero serpente.
«Mi sento forte, Drigo. E il calore di Bar aumenta sempre più la mia forza».
«I Tlazk stanno preparando qualcosa, vedo lampi lontani e di notte sento strani echi».
«Credi che preparino una guerra?».
«Non si può mai sapere cosa preparano quei viscidi, comunque noi siamo pronti. È tanto ormai che gli Umani se ne sono andati, le vecchie alleanze non contano più».
Sentirono gracchiare dall’alto e furono investiti da una folata di vento. Un imponente Kurr, ricco di penne colorate, atterrò davanti a loro. Ripiegò le ali enormi e i becchi posti all’estremità delle tre proboscidi si chiusero. Da buon animale domato, aspettava solo che il suo padrone salisse.
«Drigo, sei diventato un cavalcatore di Kurr?».
«Dovevo, per forza. Ci sarà bisogno di noi in battaglia. I guerrieri migliori sono quelli che attaccano dal cielo». Montò sul Kurr. «Che il coraggio non ti abbandoni mai, Zaygo».
«Che il coraggio ci segua entrambi, Drigo».
Il Kurr prese il volo col suo padrone, tra battiti d’ali possenti e turbini d’aria.

La città lentamente si stava svegliando. Tanti Lorn erano usciti in strada e cominciavano a svolgere la proprie attività.
Zaygo vide arrivare una squadra di dieci soldati, ondeggiavano flessuosi e impugnavano fucili a energia. Le armi a raggi erano per la truppa, perché solo a pochi eletti, come lui, spettava l’onore di combattere con armi a lama.
«Rispetto al Portatore della Daga!» gli gridarono quei Lorn, di passaggio, lasciando per un attimo i fucili con una mano e mostrando gli artigli.
Anche lui artigliò, fiero.
Chissà, forse stava per scoppiare un’altra guerra contro i Tlazk. Poteva darsi che quel periodo di pace fosse il preludio alla tempesta e lui si sarebbe presto trovato davanti tanti avversari da abbattere. Non temeva nessuno, soprattutto quei nani rossi coperti di tecnologia inutile. Che venissero pure, lui li avrebbe aspettati per farli a pezzi. E dopo si sarebbe di certo sfamato con tanti squynzi e dissetato con molta acqua.
Improvvisamente, gli arrivò addosso l’ennesima ventata. Guardò in alto pensando all’arrivo di un altro Kurr.
Invece, il cielo era vuoto.
Appena abbassò lo sguardo, si accorse che proprio davanti a lui si stava aprendo un buco nell’aria... che dava sul nulla. Rimase fermo per qualche secondo a osservare la novità, incurante di qualsiasi pericolo. Un Portatore della Daga non aveva paura di nulla, perché un nemico avrebbe potuto prendergli solo la vita, non l’onore.
Intorno all’apertura si formò un vortice che iniziò a girare sempre più forte. Il buco si allargò e il vento che ne uscì buttò tutti a terra, anche Zaygo.
Quando si rialzò, vide qualcosa muoversi là dentro. Pareva una specie di tempesta, cupa e in continuo tumultuo. E c’erano tante figure lontane che stavano arrivando.
Qualsiasi cosa sia, non è niente di buono, pensò.
D’istinto, estrasse la sua daga. Lo scatto fece uscire le altre due lame e fu pronta. Dal guanto sicli, con un altro scatto, si aprì lateralmente la spada a forma di scimitarra.
Ciò che sbucò dal vortice nero fu un vero incubo, preceduto da un urlo agghiacciante che sembrava giungere direttamente dall’Inferno. Uscirono in massa, assetati di sangue. Zaygo rimase impassibile, ben piantato sulle zampe e pronto allo scontro.
«Altro sangue per la mia daga!» urlò, brandendola con sicurezza.



sabato 24 novembre 2018

Pirati del tempo



Abilene era una cittadina in cui non ci si annoiava mai. Negli ultimi tempi l’avevano animata violente sparatorie, dove diversi uomini di legge avevano concluso la loro giornata stesi a terra e appesantiti dal piombo.
Il carico d’oro in arrivo da Fort Scott attirava sicuramente i peggiori ceffi del Kansas come api sul miele, ma lo sceriffo Wild Bill Hickok non se ne preoccupava più di tanto.
Quella mattina tenne sotto controllo la strada davanti alla banca accarezzando le sue Colt Navy. Gli aiutanti, dietro di lui, imbracciavano nervosi il Winchester e masticavano tabacco.
Il carro arrivò mezz’ora più tardi scortato da dieci soldati a cavallo e si fermò davanti a loro. Hickok si guardò intorno: sembrava tutto tranquillo, troppo tranquillo.
«Liscio come l’olio, sceriffo!» disse il sergente mentre smontava dalla sella.
«Può darsi, ma occhi aperti. I pendagli da forca non mancano e quell’oro fa gola. Verranno, anche se per prenderlo, rischiano di suicidarsi».
La porta di legno della banca si aprì e ne uscirono due impiegati. Hickok li guardava accarezzandosi i baffi con le dita. Quelli là, lui, non li considerava uomini. Stavano dietro una scrivania e maneggiavano solo soldi. Sapeva che non avevano nemmeno un briciolo di coraggio, altrimenti non si sarebbero scelti quel lavoro. La loro colpa più grave, era che non sapevano usare la pistola. Era quello che ai suoi occhi definiva chi era un uomo e chi invece una donnicciola.
I due si avvicinarono sotto il suo sguardo schifato, spingendo un buffo carrellino sul quale cominciarono a caricare i lingotti. Il cocchiere del carro scese ad aiutarli.
«Il Signor Bennett la ringrazia per l’aiuto, sceriffo...» dissero accennando un sorriso.
Hickok restò impassibile e non rispose; i due spinsero il carrello carico fino alla porta; qualcuno da dentro aprì e li fece entrare.

La banda arrivò al galoppo sparando all’impazzata. Probabilmente non conoscevano l’uomo che si preparava ad affrontarli e non sapevano a che cosa andavano incontro.
Alcuni di loro si erano arrampicati sul tetto del Saloon e puntavano i fucili sul carro e sui soldati.
Non fecero in tempo a sparare un colpo. Lo sceriffo li vide e aprì subito il fuoco.
Sparò in modo alternato, prima con una pistola e poi con l’altra. Ne colpì uno, che cadde giù dal tetto, poi un altro, che sparì dietro la grossa insegna del Saloon. Al terzo, colpito in pieno, volò il cappello. Perse il Winchester e rovinò pesantemente sulla tettoia dell’edificio. Rotolò per un paio di metri e rimase immobile, esanime.
Altri banditi arrivarono a cavallo. Furono subito bersagliati dai soldati blu. Uno fu disarcionato da una fucilata. Cadde a terra morto e il suo destriero proseguì nella corsa.
Gli aiutanti di Hickok spararono decisi senza muoversi dalle loro posizioni. Prendevano con calma la mira mentre gli avventati fuorilegge venivano avanti. Molti di questi furono abbattuti mentre passavano.
Anche tra i difensori qualcuno si accasciò fulminato dal piombo.
La sparatoria terminò alla svelta e i banditi si ritirarono come cani feriti. Il loro attacco, alla fine, aveva portato solo più lavoro al becchino.
Lo sceriffo si affrettò a ricaricare le sue Colt: non era il momento di rilassarsi. Intimò al suo vice di riunire gli uomini per controllare la situazione nella banca. Uno dei suoi era ferito e zoppicava, mentre tra i soldati c’erano stati due morti; ma era un problema del sergente e non ci si soffermò.

La scena che si trovò di fronte Wild Bill Hickok quando entrò nella banca lo sorprese parecchio: da una parte c’erano tutti gli impiegati con le mani alzate che guardavano nella stessa direzione e dall’altra un bandito col volto nascosto dalla bandana e la pistola in pugno che li teneva sotto mira.
Ai suoi piedi, in una sacca, c’era tutto l’oro... che stava rimpicciolendo. Era una cosa assurda. Hickok sgranò gli occhi convinto di sognare. Scosse la testa, poi si rese conto che quello che vedeva succedeva realmente. Il bandito teneva nella mano sinistra qualcosa di simile a una lanterna e la luce che irradiava sul giallo metallo lo faceva diminuire di volume. Era già diventato abbastanza piccolo e leggero da poter essere trasportato da una sola persona.
Lo sceriffo si riprese dallo stupore, ma intanto aveva perso quei due o tre secondi che bastarono al bandito per raccogliere la sacca e fuggire.
Si slanciò verso una porta in fondo alla stanza. Hickok estrasse le sue pistole e sparò ma lo mancò per un pelo, cosa che gli accadeva di rado. Il fuorilegge chiuse con violenza la robusta porta di legno dietro di sé.
«Cosa c’è di là? Un’altra uscita?» chiese Hickok al bancario tremante che rispose balbettando:
«Que... quella è la stanza delle scope...»
«Apri la porta!» tuonò lo sceriffo al suo aiutante, mentre teneva le pistole spianate.
Il vice, con la fronte imperlata di sudore, girò con prudenza la maniglia e spalancò l’uscio. Era sicuro che quello all’interno, vistosi perso, avrebbe vomitato tutto il fuoco possibile dalla sua pistola.
Wild Bill Hickok sparò all’impazzata numerosi colpi. Il fumo delle Colt che offuscava i suoi occhi di ghiaccio si diradò; ripose l’artiglieria nel fodero e si accarezzò i lunghi baffi.
«Per mille bottiglie di whiskey, ma qui non c’è nessuno!»
Una piccola sfera metallica stava nell’angolo dello stanzino pieno di scope e attrezzi da lavoro. Lo sceriffo la notò subito perché aveva una luce rossa lampeggiante che iniziò a lampeggiare sempre più velocemente, finché la frequenza fu tanto alta da farla sembrare una luce continua. Ne seguì un sibilo acuto e poi la sfera deflagrò.
Non ci fu calore ne distruzione, solo una folata di vento che investì i presenti. Hickok si guardò intorno e si chiese una cosa sola...
Ma cosa era successo?

***

Tutte le volte sentivo quel maledetto senso di nausea, il buio m’inseguiva anche se avevo fatto il salto.
In tutti i salti nel tempo c’era sempre l’intervallo, il limbo che ti rubava altro tempo, che ti faceva stare al buio. Ed io odio il buio.
Il tunnel temporale mi stava conducendo all’uscita. Era una sensazione virtuale, in realtà non mi spostavo nello spazio. Poi finalmente vidi la luce in fondo a tanta oscurità: era il mio biglietto per il ritorno a casa. In questa fase avveniva l’unico movimento reale, verso un’altra zona dell’America.
Chiusi gli occhi per via del bagliore crescente, li riaprii e mi ritrovai al sicuro nel covo, le spalle contro il muro e il bottino ai miei piedi.
Ce l’ho fatta anche questa volta. Ma c’è mancato poco, quel bastardo sapeva il fatto suo.
Mi avvicinai al frigo bar, avevo bisogno di una birra. Non sapevo neppure se la bomba temporale aveva fatto il suo dovere.
Ma sì, l’aveva fatto di sicuro, quegli aggeggi funzionavano sempre. Creavano una frattura nella quarta dimensione che impediva un nuovo viaggio dal punto dell’esplosione fino ai dieci anni precedenti.
Era un gingillo vietato. Possedevo molti congegni illegali, come, ad esempio, la mia macchina del tempo spallabile. D’altra parte anch’io sono molto illegale: sono un ladro!
Raccolsi la sacca e vuotai il contenuto nel ridimensionatore ionico. Lo misi in funzione e poi mi buttai pesantemente sulla mia poltrona preferita. Mi gustai con calma la birra.

***

«L’ha fatto un’altra volta! Abbiamo la traccia lasciata dalla bomba. Ha colpito in Kansas, nel 1871».
Il capitano della cronopolizia sbatté forte il pugno sul tavolo, mentre la sua squadra lo ascoltava in silenzio.
«Da quando si sono diffuse quelle dannate diavolerie, è sempre più difficile prenderli, e questo qui sembra averne una discreta scorta!».
«Forse se le costruisce da solo» azzardò un agente.
«Già, un ladro ingegnere elettronico e forse anche scienziato. Ma anche un uomo come tutti gli altri! Lo farà uno sbaglio, prima o poi! Giuro che quel giorno lo inchioderò».
Pieno di collera, il capitano del distretto 9 della sezione cronopolizia si lasciò cadere a peso morto sulla sedia mettendosi le mani nei capelli. Quel ladro gli stava dando troppi grattacapi. Non era il solito sprovveduto che si attrezza con una macchina del tempo da due soldi e torna indietro per indovinare i numeri della lotteria. Gente come quella la sua squadra se la cucinava per colazione. Questo invece puntava su eventi rischiosi, a volte poco documentati e impiegava tutta la tecnologia moderna. Prenderlo diventava molto più difficile.
Eppure dovevano prenderlo. Si stava prendendo gioco di loro. E questo, al capitano non andava giù.