venerdì 1 dicembre 2023

Un racconto di fantascienza

 


 

 

LA TRINCEA 

© 2016 Marco Alfaroli.

 

La pioggia cadeva con uno scroscio continuo, riducendo la visibilità in quella notte oscura. Rigagnoli d’acqua scorrevano lungo le pareti della trincea, la tettoia di fortuna gocciolava. Anch’io ero bagnato fradicio e il camminamento era ridotto a un acquitrino.

Le grate di ferro piazzate sul terreno per formare un sentiero erano senz’altro utili ma non miglioravano il grigiore che avevo intorno.

Mi ero guadagnato il grado di sergente sul campo, in quella sporca guerra che durava ormai da più di duecento anni. Mio padre aveva combattuto come me nella gloriosa fanteria, della potente Norkheria. L’avevano congedato a causa delle ferite riportate in combattimento. Mio nonno invece era morto difendendo le nostre linee dall’ennesimo assalto delle forze di Estralhia.

Accesi una sigaretta, coprendo il mozzicone col bavero della divisa. Un cecchino poteva ammazzarti mirando a quella debole luce, e io non volevo morire.

Erano ore che non parlavo, i miei compagni li avevo accanto, ma pensavamo tutti solo a scrutare oltre la protezione dei sacchi di sabbia... in attesa.

Davanti a noi tutto era buio; non c’era niente che si muovesse. Si vedevano solo macerie bagnate dalla pioggia, terra bruciata e fumo. Il nemico se ne stava nascosto come noi nelle trincee e anche se la situazione sembrava tranquilla, non conveniva sporgersi troppo.


Qualcuno si accorse che il canarino che tenevamo in una gabbietta era morto.

«Gas!» gridò forte. «Attaccano con i gas!»

Gettai la cicca e subito aprii il tappo laterale del contenitore a tubo che, come gli altri soldati, avevo alla cintura.

Freneticamente indossai la maschera pregando che i filtri fossero ancora attivi: dall’ultimo attacco non li avevo cambiati. Erano finiti per tutti, come il sapone e la morfina. Ma non si dimenticavano mai di rifornirci di pallottole: il magazzino era pieno di caricatori Mauser e granate.

Un boato mi scosse.

I cannoni Quasar iniziavano il martellamento delle nostre linee come copertura per il loro assalto.

Caricai il mio K-303 e montai la baionetta. Hanz, alla mia destra, aprì l’erogatore di carburante e accese il fuoco pilota del lanciafiamme. D’istinto mi spostai e lui se ne accorse; se lo colpivano, non aspiravo a finire coinvolto nella deflagrazione.

Ci fu un’altra esplosione. Fece tremare tutto e mi buttò addosso terra e detriti: questa volta avevano colpito maledettamente vicino.

Il capitano agitò in cerchio la pistola: non era facile dare ordini con la maschera sulla faccia e quel gesto era il nostro segnale convenuto che significava: Fuoco!

Alzai la testa e iniziai a sparare.

L’elmo calato sugli occhi, il vetro graffiato della maschera, la terra che saltava dopo ogni boato, l’oscurità della notte, tutto contribuiva a farmi distinguere con difficoltà i nemici in arrivo; ma io continuai a far fuoco nella loro direzione.

Spuntarono in mezzo al fumo, bersagliati dai nostri colpi: avanzavano e cadevano come mosche. I bossoli saltavano via dal mio Mauser K 303 che sussultava e si arroventava.

Un’altra tremenda esplosione fece saltare in aria alcuni degli assalitori, insieme a sassi e polvere; quando ricaddero a terra erano a pezzi, vittime del fuoco amico.

Provai quasi pena per loro: spesso succedeva anche a noi.

Approfittai del polverone per cambiare il caricatore: ero quasi a secco. Accanto a me, gli altri continuavano a sparare. Bisognava abbattere quanti più nemici possibile, prima che arrivassero alla trincea.

Ma non riuscimmo a fermarli.

Il primo che saltò dentro la trincea usava il fucile con la baionetta innestata come se fosse una lancia. Infilzò Fritz in pieno petto spingendolo a terra. Non ebbi il tempo di fermarlo, ma iniziai subito a sparare.

Da quella distanza ravvicinata crivellai di colpi quel soldato, che andò a sbattere contro la parete della trincea per poi cadere esanime nel fango.

Mi guardai intorno. Gli assalitori stavano travolgendo la nostra linea. Arrivavano da tutte le parti, fendendo l’aria con le baionette. I mitra ormai sparavano in modo disordinato e molti di noi cadevano a terra morti.

Sentii un gran caldo. Accanto a me, Hanz si dava da fare con il lanciafiamme. La vampata di fuoco avvolse un soldato tra i tanti che penetravano nella trincea.

Rovinò a terra con il corpo in fiamme come una torcia e io mi spostai per non andare arrosto.

Fu una distrazione di troppo. Alzai la testa e già ne avevo un altro che mi saltava addosso, parai il colpo col fucile che mi si spezzò in mano sotto il peso della sua furia.

Cademmo lottando in mezzo al fango. D’istinto riuscii ad afferrare la maschera e gliela strappai; vidi la faccia di un disgraziato come me, che iniziava a soffocare intossicato dal gas.

Non badai più a lui, era spacciato. Presi invece il suo mitragliatore: avevo bisogno di un’arma e la mia era a pezzi.

Feci appena in tempo ad alzarmi in ginocchio, quando, alcuni metri più avanti, qualcuno colpì le bombole di Hanz e ci fu una tremenda deflagrazione.

Calore e fiamme m’investirono e stramazzai al suolo stordito; tutto, intorno a me, ruotava e vedevo doppio.


Non so per quanto tempo rimasi svenuto. Chissà quanti lottarono sopra di me, magari calpestandomi in quella tremenda mischia. E chissà quale santo decise di proteggermi, facendomi sopravvivere allo scontro.

Chissà.

Quando rinvenni, la battaglia era finita. Un commilitone mi scosse afferrandomi per le spalle. Non riuscivo a capire chi fosse: con la maschera sembravamo tutti uguali.

Mentre mi riprendevo lentamente, mi accorsi che avevo la divisa bruciacchiata ed ero pieno di fango; a parte questo mi sembrava di essere ancora tutto intero. Mi era andata bene, questa volta. Mi alzai facendogli cenno che era tutto a posto e lui si disinteressò di me. Passò a soccorrere gli altri.

Appena fui in piedi, barcollai, sentii la testa che girava e le tempie che mi martellavano. Mi guardai intorno: il nemico si era ritirato e il campo di battaglia era più tetro e devastato di prima.

Di Hanz restava poco, poco più di uno scheletro che bruciava con ancora addosso le bombole aperte come una scatola di fagioli. Vicino a lui, altri tre corpi semicarbonizzati... e non si capiva se fossero amici o nemici.

I feriti si lamentavano e i morti erano centinaia, di entrambi gli eserciti.

Cominciavo a non poterne più di quella carneficina quotidiana. Tolsi la maschera, ormai ero uno dei pochi che ancora la indossava, segno che il gas si era disperso. Proprio in quel momento il capitano mi venne incontro.

«Stai bene?»

«Credo di sì, capitano».

«Finché non trovo dei rimpiazzi, devi mantenere la posizione. Hai dieci uomini per proteggere questo fronte. Cerca di fare un buon lavoro».

«Agli ordini, capitano».

Lui si voltò e si avviò verso il prossimo settore delle trincee, probabilmente per assegnare quella parte ad altri che ancora erano in grado di reggersi in piedi. Osservai in silenzio i barellieri che portavano via i feriti urlanti.

Uno degli uomini che avevo intorno mi affrontò.

«Sergente, noi restiamo qui?»

«Sì, piazzatevi tre metri l’uno dall’altro e aguzzate la vista, potrebbero riprovarci».

«Non sono loro i nostri nemici, sergente» gridò. «Il vero nemico è chi ci tiene qui, a scannarci per una guerra inutile».

«Stai attento» gli dissi «parli come uno di quelli del Pugno Nero. Se riferisco le tue parole, andrai dritto davanti alla corte marziale».

Lui mi guardò con un ghigno di sfida, in fondo mi conosceva bene.

«So che non lo farai e che la pensi come me! Siamo in molti a pensarla così e non facciamo parte del Pugno Nero».

Continuò a punzecchiarmi. Sapevo che aveva ragione.

«Dicono che il Pugno Nero è trasversale, che ne fanno parte traditori di Norkheria e di Estralhia. Ma chi è il vero traditore? I Conti e i Baroni che hanno iniziato la guerra non li ha più visti nessuno. Ora si fanno chiamare Inaccessibili e se ne stanno al sicuro nei loro palazzi mentre le nostre mogli lavorano come schiave nelle fabbriche di armi. Gli Inaccessibili! Ecco chi sono i veri traditori!»

Si zittì improvvisamente perché il tenente passava proprio in quel momento. Scrutò tutti con un’occhiata severa ma non intervenne. Sapevo che aveva sentito e lo guardai mentre si allontanava. Era un tipo taciturno e chiuso. Direi quasi enigmatico e a volte mi spaventava.


Non ricordavamo il motivo scatenante di quella guerra. Eravamo tutti nati a conflitto iniziato e c’eravamo abituati a quella vita, ammesso che si potesse definire tale.

Devo ammettere che il Pugno Nero affascinava anche me. Li chiamavano terroristi, traditori, disertori. Quando riuscivano a prenderli, venivano immediatamente fucilati. Ma cosa volevano? Dicevano di guardarci dai nostri ufficiali superiori e dagli Inaccessibili.

In fondo non ce l’avevano con noi, ma solo con quei colonnelli e quei generali pieni di sé che davano ordini rimanendo sempre indietro, al sicuro.

Ecco, ne stava arrivando uno. Il generale Kraditz veniva a verificare la situazione sul campo. Era circondato dalla sua guardia personale, soldati in nero che mi sembrava avessero tutti la stessa faccia senza espressione.

Non che il generale ne avesse una migliore, o esprimesse un sentimento. Era distaccato e altezzoso, mi faceva rabbia.

Scambiò due parole col capitano, il tenente stava vicino in silenzio. A noi soldati il generale non disse niente, nemmeno un bravi ragazzi, sono orgoglioso: vi siete battuti come leoni. Se ne andò nella baracca di comando, probabilmente a sfogliare mappe e a spostare bandierine.


Passarono almeno due ore. Il fronte sembrava tranquillo e gli uomini cominciavano a sonnecchiare. Avevo messo due sentinelle a vigilare in modo che gli altri potessero riposarsi.

La raffica che sentimmo ci scosse tutti dal torpore, un’altra seguì la prima quasi subito accompagnata da colpi di pistola. Ci stavano attaccando! Vidi le sentinelle stupefatte che alzavano le spalle. Guardai oltre i sacchi di sabbia e capii che non c’era nessun attacco.

«I colpi vengono da dietro le nostre linee» disse una sentinella.

«Hai ragione» risposi. «Sembra che provengano dalla baracca comando».

Non potevo lasciare sguarnita la postazione, ma sapevo che, in una situazione del genere, da ogni parte della lunga trincea sarebbe accorso qualcuno; mandato dal caporale o dal sergente che controllava la zona. «Jorg, Arvid, con me! Gli altri mantengano la posizione! Andiamo a vedere cos’è successo».

Man mano che ci avvicinavamo alla baracca, altri uomini si univano a noi e alla fine fummo in quindici. Abbastanza per fronteggiare lo sconosciuto nemico.


Tre uomini della guardia personale del generale erano stesi fuori della baracca, ma non era questo che mi aveva sconvolto.

Il fatto era che non si poteva dire che fossero morti. Un morto lo sapevo riconoscere al volo: sangue, ferite, espressione di dolore. Questi invece avevano la solita faccia di sempre, non c’era sangue in terra o sulle divise, nonostante gli evidenti fori di proiettile.

Uno addirittura aveva un braccio staccato dal corpo. Come diavolo era successo? Raccolsi quel braccio e mi sembrò l’arto di un manichino: Dalla parte staccata fuoriusciva qualcosa simile alla canapa.

Sembravano tre pupazzi rotti.

Aprii la porta della baracca impugnando il Mauser. Incontrai lo sguardo attento del capitano: stava tranquillamente seduto con la pistola in mano.

Per terra davanti a lui c’era il generale, privo di testa. Non era decapitato, era solo smontato: vidi la testa due metri più in là con quegli strani filamenti di canapa che gli uscivano dal collo. La sua faccia era altezzosa, come sempre.

Il tenente era in piedi; imbracciava il mitragliatore fumante. Stese ai suoi piedi, le altre tre guardie nere.

«Penserai che li abbiamo uccisi, figliolo» disse con calma il capitano. «Sarebbe un crimine imperdonabile uccidere il proprio comandante e dare così un grosso vantaggio al nemico».

Io non dissi nulla. Anche gli altri dietro di me rimasero in silenzio. Il capitano continuò, tranquillo.

«Quello che dobbiamo capire è chi abbiamo ucciso e poi, se questi siano mai stati vivi».

«Sembrano dei pupazzi» dissi.

«Sono dei pupazzi!» replicò. «Marionette, burattini, tutto, fuori che uomini. Noi del Pugno Nero ci siamo coordinati per un’azione che cambierà il destino dell’umanità. Oltre le linee avversarie qualcuno dei nostri, tra le file di Estralhia, ha fatto lo stesso con il loro ufficiale superiore. L’operazione è partita e si espanderà a macchia d’olio per neutralizzare tutte le marionette che ci hanno comandato finora. Queste creature comandano migliaia di uomini ignari e obbedienti per cui non sappiamo se avremo successo. Ma era importante tentare.

C’è un altro fattore importante da valutare: dietro a ogni marionetta c’è sempre un regista.

Non sappiamo chi siano in realtà gli Inaccessibili, nessuno li ha mai visti. Ma se non possono comandarci di persona e hanno bisogno di pupazzi che rispondono direttamente ai loro ordini, ciò significa che sono pochi, oppure che sono deboli. Finché non arriveremo a loro, non sarà finita. Ma giuro che ci arriveremo».

Scambiai un’occhiata con i miei compagni: la pensavamo tutti allo stesso modo.

«Capitano, noi siamo pronti!»


***


L’Inaccessibile di Norkheria guardava fisso fuori della vetrata del palazzo. Era vestito con una lunga tunica rosso scura. Bordature in oro e argento la rifinivano, Un grosso casco di piombo gli copriva completamente il capo.

Se ne stette impassibile, voltato verso la finestra, anche quando entrò nella stanza uno dei suoi generali pupazzo a riferire le ultime novità. Il pupazzo si avvicinò e si fermò sull’attenti.

«Potente Inaccessibile, abbiamo perso il controllo d’importanti parti dell’esercito, la ribellione dilaga e presto gli uomini diventeranno pericolosi».

Senza aspettarsi una risposta, poiché il suo unico compito era riferire la situazione, il generale fece dietrofront e uscì dalla stanza.

L’Inaccessibile azionò una leva e gli enormi tendaggi coprirono la finestra oscurando quasi del tutto la stanza.

Nell’oscurità, al sicuro dalle radiazioni solari, poteva togliersi il pesante casco di piombo. Nella penombra, illuminata dalla luce che riusciva a entrare attraverso uno spiraglio tra le tende accostate, fu finalmente ben visibile la sua enorme testa d’insetto, con i grandi occhi sfaccettati e le mandibole che si strofinavano nervosamente l’un l’altra.

Emise uno stridio, evidentemente preoccupato. C’erano solo altri otto suoi simili a dominare il mondo. I terrestri cominciavano ad aprire gli occhi e il gioco che lui e gli altri avevano portato avanti per duecento anni non poteva continuare.

Il loro potere era proliferato grazie all’ignoranza! Era bastato sostituirsi agli stolti governanti della Terra per ereditare una gigantesca massa umana da usare a piacimento.

Presto, però, le cose sarebbero cambiate. Lui e gli altri avevano una sola possibilità, salire sulle astronavi e fuggire. Da qualche parte nel cosmo, c’era sicuramente un altro pianeta da sottomettere, bisognava solo cercarlo.

Decise di partire, al più presto.

 

Questo e altri racconti sono inclusi nell'antologia SCHEGGE DALLO SPAZIO

 

 

venerdì 24 novembre 2023

The Creator

 

 

The Creator è un bellissimo Science Fantasy, proprio come Star Wars! Il tema dei robot è trattato in maniera differente da come veniva presentato in Blade Runner, anche se la persecuzione da parte degli umani cattivissimi è simile. La differenza principale, in questo cupo affresco di un futuro zeppo di guerre spaziali (pretesto per citare i mali storici dell’umanità), sono i robot pervasi dal misticismo.

I robot

I robot del film sono senzienti ed estremamente emotivi, l’AI ha preso coscienza diventando più che umana, eppure scegliere l’umanità per i robot è rischioso... a meno di non essere Isaac Asimov e scrivere The Bicentennial Man.

La fredda logica di Skynet in Terminator, che decide di eliminare gli umani perché inutili alla sua sopravvivenza, incolla gli spettatori alla poltrona del cinema. Stesso risultato si ottiene con Matrix, intenta a nutrirsi delle vite sognanti dei suoi schiavi umani. Ma anche in Westworld del 1973, dove i robot sono dei “tostapane guasti” e uccidono gli umani senza mostrare alcuna emozione (in Futureworld del 1976, c’è però il robot buono e qui già iniziano le contraddizioni). La macchina come minaccia funziona sicuramente meglio della macchina buona, un po' come gli extraterrestri invasori funzionano meglio di quelli amici (fatta eccezione per E.T.).

In The Creator i robot sono perseguitati dall’Occidente e invece perfettamente integrati con l’Oriente. Tuttavia gli occidentali li usano in guerra e qui una delle citazioni meno evidenti è proprio Dark Star: la bomba che scendeva da sotto la stiva dell’astronave, interloquiva coi piloti mentre le impartivano gli ordini per lanciarsi sul pianeta instabile da distruggere. In The Creator vediamo i robot kamikaze interloquire col colonnello prima di autodistruggersi diligentemente sul nemico.

L’Oriente guerrigliero

Gli altri robot, quelli dalla parte dell’Asia, sono guerriglieri, come del resto gli umani che li affiancano. La lunga e spettacolare sequenza dell’attacco occidentale è una trasposizione fantascientifica della guerra del Vietnam: l’Occidente tecnologicamente superiore (perché?) è molto “yankee”, mentre l’Oriente è arroccato in villaggi fatti di palafitte e gli uomini e i robot si difendono con mitra e bazooka proprio come facevano i vietcong. Possibile che in una guerra così terribile l’Oriente non disponga di un esercito dello stesso livello del nemico? E possibile che i robot non diano il contributo tecnologico che dovrebbero alla parte scelta? È possibile perché The Creator sfrutta situazioni storiche del passato travestendole da futuro, proprio come fece George Lucas! Così se in Star Wars ci sono i cowboys, i cavalieri medievali e i nazisti tutti provvisti di nuovo look spaziale, in The Creator ci sono le guerre a stelle e strisce in Corea e in Vietnam (che hanno funzionato in tanti film) riproposte con un look fantascientifico.

Tutto bello, ma forse, proprio per focalizzare di più il tema del razzismo, sarebbe stato meglio sostituire i robot con una nuova specie umana, magari osteggiata dall’Occidente e invece integrata dall’Oriente.

Torno in naftalina.

mercoledì 1 novembre 2023

Un racconto di fantascienza

 


 

LA SECONDA SCELTA

© 2016 Marco Alfaroli

 

 

Era notte. La Luna piena rischiarava la foresta innevata. Il ghiaccio rifletteva con mille bagliori.

Torg, col suo corpo tozzo e forte si faceva largo strappando i rami e ringhiando: aveva fame. Il suo compagno Graz lo seguiva emettendo pochi grugniti perché era un tipo taciturno; le loro gambe corte affondavano nella neve fino alle ginocchia. Era una fatica tremenda, ma andavano avanti.

Torg si appoggiò al bastone per riposarsi, tirò su col naso e guardò verso l’alto. La neve cadeva sempre più fitta, cominciava a essere troppo freddo ed era preoccupato: molti dei loro erano morti congelati per non aver trovato in tempo un riparo.

Si voltò verso Graz e sbracciandosi con violenza urlò rabbioso. Dovevano tornare indietro. Non erano riusciti a trovare carne fresca e gli altri a casa aspettavano. Continuare era troppo rischioso, poteva significare la morte.


Qualcosa luccicò oltre il fitto intreccio di rami coperti di neve. Torg si zittì e aguzzò i suoi piccoli occhi, quasi invisibili sotto la fronte prominente, ma che brillavano di astuzia. Puntò il bastone fornito di una pietra aguzza su un’estremità in mezzo ai rami. Voleva farne cadere la neve.


«Ci sono due Neanderthal, là dietro!» L’uomo che aveva parlato impugnava uno strano strumento elettronico. Sembrava una telecamera con due antenne laterali e un grosso monitor su cui una serie di led verdi si muovevano a intermittenza.

«Sei sicuro che siano Neanderthal?»

«Sì, rilevo la loro impronta di calore corporeo. La struttura ossea è quella. Siamo nei guai».

L’altro imbracciò il fucile sonico. Abbassò la piccola leva laterale e tre luci arancione illuminarono progressivamente l’arma.

«Se provano ad avvicinarsi, li stendo!»

«No! Sono più resistenti dei Sapiens e se non riesci ad abbatterli subito, ci faranno a pezzi. Rientriamo nel portale».


Torg era pieno di collera. Per andare avanti spezzò tronchi, strappò rami, si graffiò la carne incurante del dolore. Aveva visto gli “altri”. Quelli che gli portavano sempre via il cibo. Quelli che correvano meglio. Quelli che sapevano lanciare le loro armi per uccidere gli animali da lontano. Lui li odiava.

Urlò più forte che poteva, per spaventarli.

Erano strani: lo guardavano pavidi, tenevano qualcosa di mai visto in mano ed erano ricoperti di azzurro. Intorno agli “altri” c’erano tante cose che spaventavano Torg.

C’era quel cerchio ruotante che vibrava a mezz’aria… Torg rimase per un attimo incerto, esitò.

Un lampo, all’improvviso, illuminò dall’alto tutto e tutti. Torg, abbagliato e stordito, svenne.


Quanto tempo era passato? Ore, giorni? Il temponauta si svegliò lentamente. Dove si trovava? Si rese conto del pavimento metallico per via della fredda grata su cui poggiava la guancia.

Sbatté più volte le palpebre per riprendersi dal torpore e poi cercò il suo collega. Era sdraiato accanto a lui e lo scosse per farlo rinvenire.

«Niko 13! Svegliati, siamo stati catturati».

L’altro, visibilmente stordito, si guardò intorno.

«Dove siamo?»

«Non lo so, ma non credo proprio che questa sia la caverna dei Neanderthal».

Una luce fioca arrivava da qualcosa di simile a un neon che correva lungo tutto il perimetro del soffitto e rischiarava debolmente le pareti lisce, sporche, percorse da tubazioni e condotti, di quella che doveva essere una stiva.

«Guarda!» disse Kano 7.

Niko 13 si voltò. La parete che avevano di fronte diventava evanescente, azzurrognola. Alla fine fu trasparente e mostrò quattro lettini con quattro ominidi legati e sedati. In piedi davanti a loro c’erano due esseri extraterrestri, intenti a monitorarli con strani strumenti.

I due si voltarono verso Niko 13 e il suo collega Kano 7, e li osservarono.

«Che facciamo?»

«Niente, non possiamo fare niente».

Gli alieni erano alti, magri e avevano un’anatomia umanoide. Ciò che li differenziava di più da un uomo era la loro testa: sembrava quella di un cavallo, ma con sei occhi per lato. Indossavano una tuta di un materiale sconosciuto dal colore dorato.

Niko 13 guardò gli ominidi: due erano Sapiens e due Neanderthal. Forse quelli che avevano tentato di aggredirli nella foresta.

«Che cosa stanno facendo?»

«Non lo so e non mi piace. Dobbiamo trovare il modo di andare via da qui».

«Impossibile, non vedi che siamo prigionieri?»

Niko 13 non gli rispose, la sua attenzione era stata catturata dalle azioni degli extraterrestri.

Sopra i lettini, avvolti in un complicato intreccio di tubi, due grandi schermi sferici riportavano la ricostruzione elettronica delle teste e del cervello degli ominidi addormentati.

La loro attività cerebrale era indicata da strani diagrammi luminosi. Anche se i dati erano scritti in un linguaggio sconosciuto, appariva chiaro che i valori dei Sapiens erano più alti.

«Credo che stiano misurando la differenza intellettiva tra le due specie».

Kano 7 si accigliò.

«Forse li usano come cavie per qualche esperimento».

«Come abbiamo fatto tante volte noi con gli animali?»

«Sì, quando ne esisteva ancora qualcuno».

«No, non è un esperimento» disse Niko 13.

Uno dei due alieni stava davanti ai Sapiens e teneva in mano un apparecchio che forse serviva per fare iniezioni.

«Quella fiala piena di liquido viola! Stanno per iniettarla e hanno scelto la specie con i valori più alti. Sai che cosa penso? Che vogliano far progredire i Sapiens condannando i Neanderthal all’estinzione. Non abbiamo mai scoperto quale sia stato il fattore che ha permesso l’evoluzione della nostra specie e la scomparsa dell’altra».

«Ora lo sappiamo: è stato E.T. Con una siringa» ribatté Kano 7 con tono sarcastico.

Proprio in quel momento l’altro alieno puntò i suoi dodici occhi addosso ai temponauti. Si avvicinò alla parete trasparente e appoggiò la mano.

Ci fu una potente vibrazione che scosse tutto. Niko 13 sentì che qualcosa gli afferrava con violenza la mente.

Non poteva muoversi. Una fortissima morsa invisibile lo bloccava. Con uno sforzo tremendo ruotò di poco il capo: accanto a lui anche Kano 7 era immobilizzato.

Vide tutti i propri pensieri proiettati davanti a sé, insieme a quelli del suo amico. Era come se qualcuno li analizzasse, e scartasse quelli che non gli interessavano. Era evidente che gli extraterrestri volevano conoscere il futuro.

Niko 13 oppose più resistenza possibile ma gli alieni riuscirono senza fatica a entrare nella sua mente.

La Terra del ventinovesimo secolo, almeno cinquantamila anni più avanti nel tempo, appariva devastata.

Il cielo, denso di fumi velenosi, offuscava la luce del Sole e, sotto di esso, un’immensa distesa oleosa e inquinata ricopriva tutto. Si vedevano alcune strutture metalliche simili a palafitte. L’alieno, leggendo nella mente, comprese che erano rifugi.

Gli ultimi superstiti umani, infatti, dopo aver definitivamente distrutto la Terra, vivevano relegati nei rifugi, gli ultimi spazi abitabili rimasti. Retrocedevano nel tempo nelle varie epoche della storia per saccheggiare risorse per la loro sopravvivenza. L’espressione dei due umanoidi era inequivocabile. Mostravano shock e disgusto per quello che avevano appena visto. Fissarono i temponauti con disprezzo.

Niko 13 provò una forte vergogna per ciò che i suoi simili avevano fatto. La morsa lo lasciò libero e lui cadde in ginocchio piangendo. Un secondo più tardi fu liberato anche Kano 7.

L’alieno vicino ai Sapiens guardò la fiala di liquido viola. Poi alzò lo sguardo verso l’immagine mentale che mostrava quel panorama di morte. Alla fine si diresse verso i Neanderthal.

Niko 13 capì subito e urlò.

«No! Non potete farlo!»

Iniziò a battere i pugni sulla parete trasparente ma l’altro alieno azionò qualcosa a distanza. Il muro divenne gradualmente più consistente nascondendo i due temponauti.

Quel giorno furono i Neanderthal a ricevere quel qualcosa in più. Era un aiuto dalle stelle per vincere la competizione evolutiva e diventare i padroni del mondo.


Circa cinquantamila anni più tardi, su una Terra diversa, ancora parzialmente selvaggia, abitata da uomini che vivono in sintonia con la natura, rimane un mistero cui gli scienziati Neanderthal non sanno ancora dare una spiegazione.

Perché i loro antichi cugini si sono estinti?

 

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