Lost in Space è un classico
della fantascienza televisiva statunitense. L’originale, col
mitico Guy Williams (Zorro) capo famiglia, è ormai preistoria...
e i giovani difficilmente potrebbero apprezzarlo oggi.
Nel 1998 fu realizzato un ottimo
remake ricco di effetti speciali, con una solida trama e attori
importanti come Gary Oldman e William Hurt.
Eppure Netflix è riuscita a fare
l’impossibile: in un 2018 inflazionato dalla fantascienza, con gli
Star Wars Disney che spuntano come funghi e i supereroi Marvel e DC
comics che messi insieme potrebbero ricostituire il 7°
cavalleggeri del generale Custer, ha confezionato la prima stagione
del nuovo Lost in Space rendendola bella e coinvolgente.
Il fatto che gli effetti speciali fossero perfetti non era certo una garanzia dell’effetto finale. E i
punti deboli si possono individuare nell’aspetto troppo terrestre
del mondo sul quale precipitano la Jupiter 2 e le altre navicelle, e nella lentezza di alcune puntate. Ma vale la pena vedere l’intera stagione soprattutto per la suspance che permea il
decimo e ultimo episodio.
Io, che ho amato il film di Stephen
Hopkins del 1998, non posso far altro che aspettare con ansia la
seconda stagione e ammettere che quel film è stato ampiamente
superato dalle novità introdotte da Netflix.
Detto questo vorrei analizzare
l’idea di base della serie originale del 1965: la famigliola
americana perfettina sparata tra le stelle a bordo di un’astronave
da favola.
Ebbene, viaggio spaziale a parte, si
tratta della riedizione del cartone animato The Jetsons (I
Pronipoti), del 1962. la famiglia c’è tutta, con una sorella in
più e il robot che sostituisce il cane Astro. Lo show si potrebbe
classificare come uno Star Trek per famiglie a stelle e strisce.
Eppure c’è un elemento di
disturbo che è l’asso nella manica per i produttori delle due
serie e del film: il Dr. Zachary Smith. Nel pilot della serie
originale, intitolato No place to hide, non compariva neppure;
fu introdotto negli episodi successivi e acquistò sempre più
importanza, trasformandosi da semplice sabotatore malvagio in
personaggio problematico, egocentrico e a tratti perfino comico.
Nel film del 1998 il Dr. Smith fu
magistralmente interpretato da Gary Oldman, che però in sole due ore
non ebbe la possibilità di rappresentarlo come avrebbe meritato.
Nella nuova serie Netflix il
personaggio diventa femminile, misterioso, cinico e privo d’identità
e proprio per questo più intrigante.
June Harris (identità rubata) è
probabilmente un omaggio all’attore Jonathan Harris che interpretò il dottore nel
1965. E Dr. Smith è l’altra identità che la misteriosa sabotatrice ruba
a un membro dell’equipaggio della Resolute prima di sbarcare sul
pianeta a bordo di una navicella Jupiter.
Anche io ho trovato questa serie entusiasmante, degno omaggio e anche reprise del film che ho amato molto.
RispondiEliminaOra speriamo che Netflix non sbagli con stagione due!
Piuttosto speriamo che la stagione due sia realizzata! Già nel 2009 la serie Visitors fu bruscamente interrotta per calo di ascolti... speriamo che Lost in Space non faccia la stessa fine...
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