venerdì 1 marzo 2019

Delos Digital e i camionisti dello spazio



Camionista dello spazio”, John Ellroy amava sentirsi proprio questo. Anche se in realtà il suo lavoro era “pilota di cargo per il trasporto merci tra la Terra e le colonie”.
Sorseggiò piano la sua tazza di caffè bollente, e abbassò tre levette in sequenza sulla consolle. Sul vetro della nave, in alto a sinistra, comparve la simulazione della mappa stellare, con la posizione corrente. Al di là del vetro, invece, il cosmo nero puntellato di stelle continuò a venirgli incontro.
L’ammasso di ferraglia su cui viaggiava scorreva nello spazio, illuminato dalla luce lontana del Sole. Innumerevoli tubazioni si inseguivano sulla sua superficie, interrotte da grate, boccaporti e torrette d’ispezione. Sulla lunga dorsale stavano aggrappate quattro serie di grandi cisterne, divise in gruppi di tre. Molte luci brillavano prepotenti qua e là. Seguiva il tutto la sezione motori con sei ugelli che sputavano un’intensa scia luminosa bianca.
Nadyria! Questo era il nome del “camion” spaziale. Ma era solo John a chiamarlo così, in onore dei miti passati. Negli spazioporti lo chiamavano mercantile X79 della Compagnia Nardus. Una delle più grandi società di trasporto del settore.
Una voce femminile, calda e sensuale, sussurrò delicata.
«Buongiorno, John».
«Buongiorno, Katie, sono sveglio da almeno dieci minuti. Avvia il check up della nave, voglio un controllo accurato» sorseggiò ancora.
«Come vuoi, tesoro».
John appoggiò la tazza sulla consolle e attese.
Se il computer interagisce parlando, perché chiamarlo computer? C’erano una serie di nomi già impostati di default e Katie lo faceva sentire sicuramente meno solo. E tra le voci possibili c’era l’amico che scherza al bar, la splendida donna sexy, il capitano di vascello molto autoritario e il compagno gay... cosa valeva la pena scegliere? Era ovvio! La splendida donna sexy.
Anche se, negli ultimi giorni, si era reso conto che quella voce cominciava a stancarlo. E non era colpa di lei, lo sapeva bene.
Era per colpa delle donne, e dei casini che gli avevano combinato.
«Lo sai, Katie? La mia ex moglie rimarrà ex...»
Ci fu il silenzio per qualche attimo. Il computer stava elaborando la risposta più azzeccata, chissà in base a quale variabile.
«John, non dirmi che hai provato a parlarle, dopo quello che ti ha fatto».
«L’ho perdonata».
«È scappata col dottore, e tu l’hai perdonata?»
«Non stanno più insieme».
«E va bene, che ti ha detto? Perché non vuole tornare con te?»
«Dice che sto via per mesi. Non è sicura di riuscire ad aspettarmi. E che le nostre strade devono prendere direzioni diverse».
«John, sei sempre il solito sentimentale... pazienza, vorrà dire che ti avrò tutto per me».
«Sono elettrizzato, Katie».
Che fosse il momento di spegnere il computer? Stava diventando irritante, John pensò seriamente di entrare nel programma e passare al capitano di vascello. Sì, forse una voce impersonale che parlava con distacco era la soluzione giusta. O forse no.
«John, puoi avere tutte le donne che vuoi. Sei bello!»
«Me ne basta una, Katie» disse sorridendo. Che ne poteva sapere di donne, quella macchina? Magari l’aveva programmata proprio un uomo.
Si alzò e andò dietro, scostò la tendina che separava il vano pilotaggio dall’altra sezione, quella ricreativa. C’era un portello che avrebbe dovuto aprirsi e chiudersi in modo scorrevole, ma lui lo detestava e l’aveva bloccato. E aveva messo la tendina.
Passò. Nell’altra sezione c’erano tutte le sue cose tra cui un vecchio cappello da cowboy appeso e una bandiera confederata che prendeva buona parte della parete.
I confederati avevano perso la guerra di secessione. Per questo gli stavano simpatici. Avevano sempre perso, come lui. Ed erano stati uomini dei suoi posti, del Tennessee. E quindi un pezzettino di quella bandiera rossa incrociata di blu con le stelle bianche rappresentava la sua terra.
I confederati erano razzisti? Sì, quelli di un tempo. Le giacche grigie che combattevano contro le giacche blu per mantenere la schiavitù... ma si parlava di preistoria. Oggi, nel 2968, tutto questo non aveva più alcun significato. L’unica cosa importante era aggrapparsi a qualcosa che identificasse l’uomo col luogo in cui questo era nato, visto che la Terra era ormai diventata un’unica città e le nazioni si erano tutte fuse in una sola.
E poi c’erano le altre cose, in quella stanza. C’era un vecchio flipper funzionante, l’area bar, il grande monitor per vedere film e giocare con i videogames.
Che palle! Pensò John. Quando ti offrono questo tipo di lavoro dicono che è una passeggiata, che tutto scorre liscio come l’olio. Anche una scimmia sarebbe in grado di portare la merce a destinazione. Ebbene, hanno ragione! S’intristì.
«John...» la sensuale voce di Katie lo raggiunse anche nell’area ricreativa, il computer lo sentivi dappertutto.
«Che succede?» rispose lui.
«Ho finito il check up. Ho i risultati e c’è un problema».
«Visualizza l’immagine olografica della situazione».
Al centro della stanza si materializzò l’immagine. Era la mappa tridimensionale della nave, fatta di linee colorate. Vicino alla sezione motori un elemento lampeggiava in rosso.
«Ingrandisci. B-9».
E lei ingrandì l’elemento incriminato.
«È uno dei vaporizzatori di carico, Dobbiamo sostituirlo, o tutta la sezione si surriscalderà» con la mano si coprì la faccia, poi scese giù fino al mento. Faceva sempre così quando era preoccupato.
Si mosse veloce verso il vano pilotaggio, scostò la tendina, entrò. Si sedette sulla poltrona davanti alla consolle. Attraverso il vetro vedeva lo spazio, milioni di stelle e Saturno, o meglio, una sua parte... in basso a destra.
In alto a sinistra, Katie, mostrava tutti i dati importanti. La mappa della nave, il check up e il pezzo in avaria. Sotto, la distanza da Saturno e dalle sue lune, la velocità e i possibili punti di entrata in orbita.
«Katie, voglio le coordinate per la stazione rifugio più vicina».
Passarono alcuni istanti di elaborazione. Poi, il computer produsse il suo risultato.
«Stazione Idra, sulla luna Encelado. Coordinate 2.53.7 e 4.73.21».
«Atterriamo lì, non voglio rischiare danni maggiori».
«John, ti ricordo che la Compagnia ti impone come data di rientro il 15 febbraio, e siamo già al 10».
«Lo so, ma è meglio ritardare, piuttosto che non arrivare per nulla!»
John impostò le coordinate manualmente. Afferrò la cloche e portò il bestione sulla nuova rotta. Prese a virare verso Saturno.
La stazione Idra era stata costruita in un’area piana in mezzo alla zona montuosa di Encelado.
Si sviluppava in profondità con alloggi per clienti e personale. In superficie cresceva la struttura fortificata protetta dalla barriera antimeteoriti. C’erano il bar, l’area ristoro e tutti gli hangar coi meccanici e le zone rifornimento. Alcune astronavi stazionavano sui piazzali. Ce n’erano di tutti i tipi: due navi turistiche, una pattuglia della polizia e alcuni cargo mercantili.
Il Nadyria spuntò tra le stelle, sopra la stazione. E lentamente, prese a scendere.
Toccò terra sbuffando vapore da tutte le parti. Scricchiolii e pistoni che scorrevano assestarono la struttura.
E finalmente fu fermo.
La bassa gravità permetteva questo. Sulla Terra sarebbe stato impensabile un atterraggio del genere. Ma tanto non era necessario. Intorno alla Terra c’era la stazione orbitale e i mercantili attraccavano, scaricavano le merci che venivano portate giù dagli shuttle. Poi ripartivano, possibilmente carichi col materiale per le colonie, perché viaggiare vuoti non paga. E a volte, addirittura, si rimaneva inattivi per giorni, pagando la sovrattassa di ormeggio, nella speranza di acchiappare qualche buon ordine di trasporto.
Il portello scorrevole che dava sull’esterno si aprì. Entrò aria fresca. La barriera antimeteoriti formava una cappa energetica stagna che riproduceva le condizioni ottimali terrestri: temperatura, gravità, atmosfera. C’erano, insomma, tutte le comodità.
«Katie...» disse John.
«Sono tua, bel fustone».
John si ripromise di abbassare qualche livello del programma, al suo ritorno dal bar e dall’area meccanici.
«Devi pensare alla protezione del Nadyria mentre sono via. Sei operativa?»
Una serie di scatti attivarono ingranaggi e forza meccanica. Due forme sferiche ai lati del corridoio che dava sull’uscita ruotarono. Vennero in fuori. Scoprirono due cannoni laser telescopici, che si svilupparono in avanti.
John se li trovò puntati addosso.
«Sei la solita esibizionista. Bastava rispondere ».
«Vai tranquillo, caro. L’antifurto è attivo».
Il ponte scese e John sbarcò. Subito dopo il portello si richiuse e il ponte risalì: Katie rimaneva di guardia.
Attraversò l’enorme piazzale di parcheggio, passando in mezzo alle altre astronavi ferme. Sopra di lui, altissimo, c’era l’alone azzurrino della barriera, che schiariva il nero cielo stellato.
Vide due titaniani che discutevano, vicini al loro cargo. Si riconoscevano dalla tuta da minatore e dal dispositivo coi filtri che indossavano quando non erano su Titano. Aver modificato geneticamente le nuove generazioni di coloni su quella luna era stata una mossa astuta, ma se nel resto del sistema solare si continuava a diffondere l’aria della Terra, la mossa astuta diventava un handicap.
Comunque John arrivò davanti alla porta del bar. Pensò al vecchio west e al suo cappello da cowboy. La porta del Saloon, a quei tempi, si apriva in maniera bizzarra. Ma di questo non era del tutto sicuro, forse era così solo nei film.
La porta pneumatica si aprì scorrendo dentro la parete. E lui entrò.
Notò subito la barista. Come si faceva a non notarla, era molto bella. Anche lei puntò gli occhi su di lui, ma questo era ovvio, arrivava un altro cliente.
Comunque su di lui, puntarono gli occhi anche tutti gli avventori, che poi non erano molti. C’era un titaniano seduto a un tavolo e, visto che aveva davanti due bicchieri vuoti oltre a quello che teneva in mano, doveva essere il compagno di quelli che discutevano fuori. Poveraccio! Beveva con una specie di cannuccia innestata nella maschera a filtro.
Poi c’era una famiglia di turisti, padre, madre e due bambini. Gente benestante, che poteva permettersi una nave personale per le proprie vacanze. In fondo, nella penombra, c’erano due camionisti della Terra. Non li conosceva, ma per spirito di appartenenza gli fecero un cenno di saluto che lui ricambiò. Al tavolo più vicino al bancone, infine, sedevano due poliziotti. La loro lancia di pattuglia ferma nel piazzale non si poteva non notare. I poliziotti non gli erano simpatici. Quelli corrotti dalla Compagnia lo lasciavano sempre tranquillo, ma quelli comprati dalle altre compagnie portavano solo guai. Questi lo scrutarono e non dissero niente. A quale categoria appartenevano?
In un angolo solo al tavolo, in ombra, c’era un tipo misterioso. Un asiatico, completamente vestito di nero, molto elegante. Forse si trattava di un uomo d’affari, anche se era troppo atletico per esserlo.
John si avvicinò al bancone e si appoggiò sui gomiti.
«Cosa bevi, biondo?» disse la barista.
«Dammi un whiskey, bellissima».
Lei si girò, prese la bottiglia dallo scaffale e gli riempì il bicchiere.
«Ecco» gli donò un sorriso, «sono due crediti, qui si paga subito».
«Mi sembra giusto» disse lui e tirò fuori di tasca una scheda elettronica, la passò a lei e bevve, tutto d’un fiato.
«Ho un problema coi vaporizzatori di carico, appena esco di qui vado dai meccanici. Ma per i soldi devo parlare con te, come nelle altre stazioni, vero?»
«Per le riparazioni, per il rifornimento, per bere, mangiare e per dormire. Passa tutto da me, ma non credere che io sia la padrona della baracca, qui».
«Che ci fa una bella donna come te in un posto come questo, lontano da tutto e da tutti?»
«Fammi un’altra domanda».
«Cosa fai stasera?»
«Quello che faccio ora, mi trovi dietro al bancone, biondo. O devo chiamarti in un altro modo?»
«Chiamami John, mi chiamano tutti così, da quando sono nato».
«Kirsten».
«Incantato» questa volta sorrise lui. Poi, con un veloce dietro front, si diresse all’uscita. Senza dire altro.
(il racconto continua su Delos Digital)

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