sabato 1 luglio 2023

Un racconto di fantascienza

 


 CHI C'ERA PRIMA DI NOI?

© 2016 Marco Alfaroli

 

 

Bafkami Logtom spinse la levetta chiudendo il contatto elettrico. Su tutti gli indicatori, le lancette schizzarono al massimo, l’oscilloscopio collimò le lenti.

Mazzad Nerfosse, accanto a lui, abbassò con forza una grossa leva e il complicato sistema di ingranaggi fece il suo dovere. L’asta sciogliterra iniziò a scendere. Grosse quantità di acido, pompate dai serbatoi del laboratorio e incanalate nel tubo fino alla punta perforante, aprirono la strada consumando la roccia.

«Sono sicuro che prima di noi c’era qualcuno» disse Bafkami.

«Prima di noi non c’era niente, te l’hanno detto tutti».

«Vedrai che questa volta troverò le prove».

Bafkami era cocciuto. Il suo collega lo sapeva, lo conosceva bene. Ricambiò ridacchiando.

Il laboratorio era pieno di strumenti, contenitori, provette, fogli pieni di appunti sparsi sul tavolo e per terra. C’era poca luce e un’incredibile confusione. I due non ricordavano neppure se fuori fosse giorno o notte; Bafkami si era messo in testa quella cosa e lavorava ininterrottamente da ore. Il suo amico stentava a tenergli dietro.

«Da quanti cicli solari esiste la nostra specie sulla Terra?»

«Che domande mi fai? Noi esistiamo da sempre, ma ci siamo evoluti solo 195000 cicli fa. E allora?»

«Allora, da quanto esiste la Terra?»

«La Terra c’è sempre stata e un tempo era disabitata, poi arrivò il grande Fologh che ci creò impastando acqua e argilla. Molto tempo dopo, si accorse che il suo lavoro era rimasto a metà e ci rese intelligenti».

Bafkami guardò il suo collega con tristezza: come si poteva credere a simili fesserie? Era inutile. Parlare con lui significava sprecare il fiato. Per fortuna il laboratorio gli apparteneva e l’amico collega era anche suo dipendente. Ebbe per un attimo il dubbio che fosse solo per questo che continuava ad aiutarlo nelle ricerche scientifiche.

No! Sapeva che lo faceva perché provava affetto per lui. E sapeva che senza il suo aiuto non avrebbe potuto lavorare. Si maledì, per aver pensato male.

«Un giorno ti dimostrerò che il tuo Fologh è arrivato secondo!»

Sul manometro più grande, la lancetta indicò un forte aumento di pressione: l’asta sciogliterra aveva incontrato uno strato più duro degli altri.

«Siamo alle solite, fa fatica ad andare avanti. Aiutami, presto!»

Mazzad eseguì senza fiatare, era per questo che c’era bisogno di un aiutante. Chiuse velocemente le valvole che stavano dalla sua parte e aprì gli sfiati. Bafkami fece lo stesso dalla sua. Sbuffi di vapore partirono, spandendo calore e rumore tutto intorno. Poi, un botto sordo arrivò da sotto facendo sobbalzare entrambi. Qualcosa si era spezzato: l’asta. Ancora una volta.

Bafkami, deluso, vide la faccia silenziosa di Mazzad.

«Bisogna trovare un’altra asta, spostarci in un altro punto e riprovare».

«Vado a prenderla».


Mazzad uscì dal laboratorio e vide con sorpresa che era mattina. Avevano lavorato tutta la notte e ora quel pazzo, là dentro, pretendeva un’altra asta. Perché continuava a collaborare con lui? In fondo lo sapeva. Nessun altro l’avrebbe aiutato nelle sue folli ricerche. Si trattava di non abbandonare un amico, tutto qui. Anche se era preda di stupide manie.

Ogni volta che si trovava davanti ai giganteschi alberi carichi di foglie, sentiva la voglia di arrampicarcisi sopra. Vide in alto che qualcuno già l’aveva fatto e che era salito a giocare; purtroppo lui, ora, non aveva il tempo di farlo. Domani! Ecco, domani avrebbe fatto una pausa dal lavoro e si sarebbe divertito un po’.

Si diresse velocemente verso l’officina di Hambug Xoggar. Era la terza volta che andava a chiedergli un’asta. Sotto le zampe sentiva che la terra era calda: il sole illuminava e scaldava tutto. Le abitazioni, rotonde, con tanti come lui che cominciavano a uscire, gli infusero allegria. La città si stava svegliando. Jottaz Sbirlun gli passò accanto pedalando veloce a mezz’aria col suo pallone a ingranaggi.

«Allora Mazzad? Quel pazzoide ha scoperto qualcosa stanotte?»

Si allontanò senza aspettare la risposta, un po’ per via della sua velocità e un po’ perché quella era una battuta di scherno.

Stavano diventando la barzelletta della comunità e questo a Mazzad dava molto fastidio.

«Scoprirà qualcosa un giorno, vedrai! Così la smetterai di fare lo spiritoso!» gli rispose risentito.

La sua invettiva fu ascoltata solo dal vento, l’altro infatti, era già lontano.

Trovò Hambug Xoggar ad aspettarlo davanti all’officina. Non che fosse inattivo, lavorava al ciclotrasporto a vapore del vicino. Solo che, vedendolo arrivare, si era fermato.

«Ti serve un’altra asta, vero?»

«Già, quel testone è riuscito a rompere anche l’ultima che ci avevi dato».

«Perché non ti trovi un altro lavoro? Magari meno monotono e all’aperto… ti farebbe bene, lo sai?»

«Perché siamo amici e voglio stargli vicino. Questa fissazione gli passerà, prima o poi».

«Aspetta qui, vado dentro e la prendo».

Hambug tornò poco dopo, spingendo un carrello con l’asta telescopica, chiusa.

«Come al solito dovrò prestarti anche il carrello e siccome nessuno di voi due ha mai tempo per riportarmelo, toccherà a me, poi, venire a recuperarlo».

«Purtroppo sì, Hambug, siamo scienziati, lo sai. Abbiamo tanto lavoro e così...»

«Scienziati, bah...»

Hambug scosse la testa e sbuffò; poi riprese ad occuparsi del ciclotrasporto.

Mazzad decise che questa volta non avrebbe salutato quel tipo così rozzo! con tutto quello che gli costava, poteva avere anche un po’ più di rispetto per la ricerca scientifica.

Senza dire niente prese a spingere: Bafkami aspettava e bisognava sbrigarsi.


Un boato lontano scosse tutto e tutti. Mazzad vide una colonna di fumo alzarsi proprio in direzione del laboratorio.

«È scoppiato, alla fine! Quel pallone gonfiato ha fatto la botta!» esclamò Hambug ridendo di gusto. «Dovranno staccarlo dalle pareti del laboratorio, vedrai. È la fine degli stolti!»

Mazzad non badò a lui e alle sue cattiverie, abbandonò asta e carrello, ormai non servivano più. Si precipitò subito a soccorrere il suo amico.

Mentre si avvicinava al laboratorio, molti curiosi accorrevano, attirati dall’esplosione. Palloni a pedali e cicli a vapore arrivavano da tutte le parti. Una discreta folla accerchiava la zona interessata dal fumo.

Quando arrivò, per fortuna, vide Bafkami sano e salvo che saltellava fuori dal laboratorio sventrato, dal quale saliva denso il fumo. La scena della catastrofe appena avvenuta era ravvivata da fiammelle sparse qua e là.

Bafkami ballava felice: che fosse impazzito?

«Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Ora so com’erano fatti!»

Mazzad si avvicinò con cautela all’amico.

«Ti... ti senti bene, Bafkami?»

«Benissimo, non sono mai stato meglio! Tu e il tuo Fologh avete sbagliato tutto. Io solo avevo ragione».

In effetti non pareva star male. Lo osservò mentre saltava di gioia. Tutto il pelo appariva integro, nessuna bruciatura, la coda era ancora attaccata al suo posto. Forse l’esplosione gli aveva danneggiato il cervello. Ma così, a prima vista, non sembrava.

«Vieni, vieni dentro. Ti faccio vedere» disse Bafkami pieno di entusiasmo.

Entrarono.

Il fumo usciva dal soffitto scoperchiato e si andava diradando. Il pavimento, invece, era tutto rialzato. Nel punto dove il macchinario a vapore aveva perforato il sottosuolo con l’asta sciogliterra, si era aperta una voragine e qualcosa, risalito da sotto e sospinto da una forza incredibile, troneggiava in mezzo alla stanza.

«Guarda, ti sembra forse che assomigli a noi?» gridò Bafkami.

Mazzad non parlava. Quello che emergeva dal pavimento era chiaramente una statua di pietra, molto più grande rispetto alla normale statura della sua gente. Riproduceva l’aspetto di una creatura molto alta, o almeno parte di essa, visto che si vedevano solo la testa, le spalle e una parte del busto. Non si capiva se il resto, magari spezzato, fosse rimasto molto al di sotto.

«Il gas, capisci? Il gas, liberato dal buco scavato dall’acido, ha trovato la strada per risalire. Quella statua si trovava in mezzo e lui me l’ha portata su. Che fortuna, vero?»

Fortuna era una parola che andava usata con cautela. Mazzad si guardò intorno: il laboratorio e con lui la casa di Bafkami erano ormai un cumulo di macerie.

«Come hai fatto a salvarti da tutto questo sfacelo, Bafkami?»

«Ero uscito per vedere se tornavi… ce ne hai messo di tempo, per portare quella stupida asta. Oltretutto non la vedo».

Mazzad, in silenzio, osservava la statua. Aveva due occhi e una bocca come lui. La pelle però era liscia e priva di peli.

Uno degli specchi del laboratorio era a terra, appoggiato al muro. Ci si specchiò per caso.

La sua immagine riflessa era quella di un topo intelligente con 195000 cicli solari di evoluzione. Quell’altra creatura, invece, chi era?

Qualcuno che aveva dominato la Terra prima dei topi? Sembrava incredibile, eppure Bafkami era riuscito a trovare le prove.

Quello che né Bafkami, né Mazzad e nessun altro topo riuscirono a trovare nei cicli che seguirono, fu il nome della misteriosa creatura ormai estinta. La statua raffigurava un essere preistorico, antichissimo, che era stato protagonista di chissà quali imprese ormai perse tra le pieghe del tempo.

Quell’essere, in un’epoca ormai lontana, era chiamato Uomo.

 

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