È stato tanto tempo fa, ero un bambino e restai affascinato da quei film americani pieni di extraterrestri cattivi che cercavano di conquistare la Terra. E per loro (gli extraterrestri) finiva sempre nello stesso modo: venivano sconfitti con trovate imprevedibili e definitive. Quando era l’acqua di mare, quando gli ultrasuoni, talvolta i microbi, oppure la corrente elettrica.
Per quanto sembrassero invincibili durante tutto il film, negli ultimi dieci minuti si scopriva sempre il loro tallone d’Achille.
Un giorno vidi un film russo, con sette cosmonauti che sbarcavano su Venere e lo scoprivano primitivo, zeppo di dinosauri. Ebbene, i venusiani c’erano nel film, ma erano tutt’altro che minacciosi. Se ne stavano nascosti per spuntare solo nel finale, quando i terrestri ripartivano col loro razzo. Il riflesso nella pozzanghera venusiana mi lasciò solo intravedere una creatura schiva, misteriosa e probabilmente pacifica.
Quella fu la mia prima volta degli alieni buoni, molto prima degli incontri ravvicinati di Spielberg.
Tra i due meccanismi narrativi, quello degli extraterrestri cattivi è sicuramente il più inverosimile: le distanze astronomiche, le incompatibilità ambientali, i pericoli di contagio, rendono assurda qualsiasi mira di conquista interstellare. Eppure i film sull’invasione incollano lo spettatore alla poltrona molto di più di quelli sul contatto pacifico permeato dal senso di meraviglia.
La trovata più azzeccata fu in quella serie TV con gli UFO che rapivano i terrestri per espiantargli gli organi.
Oggi sembra che le idee siano un tantino a corto, forse perché in tanti hanno già raschiato il barile. E infatti assistiamo troppo spesso alla fiera del già visto.
Tornando a quando ero bambino, il ricordo va inquadrato in quell’epoca, quando ancora non avevamo visto niente. Non eravamo smaliziati e quasi tutto c’incantava.
Rivedere oggi ciò che affascinò allora diventa spesso una delusione.
Ieri ho visto il film “La cosa da un altro mondo”, del 1951. A parte il fatto di aver sostituito l’originale mutaforma del libro con un gigante alieno vegetale, praticamente un uomo albero, c’è un grosso difetto che fu tipico del periodo e che allora quasi nessuno notava.
Un po’ come succedeva nei film di cowboys e indiani i buoni e i cattivi erano talmente definiti da risultare quasi personaggi a due sole dimensioni. Nei western, infatti, gli indiani erano sempre cattivi e lo erano gratuitamente. Nessuno spiegava che i bianchi avevano rubato la loro terra, nessuno si preoccupava delle loro ragioni. Erano semplicemente i selvaggi che “l’arrivano i nostri” del 7° Cavalleria avrebbe spazzato via tra gli applausi in sala a fine film.
Per gli extraterrestri era lo stesso
e fu lo stesso anche per il povero uomo albero, pilota di un
astronave precipitata su un pianeta a lui ostile. Nonostante fosse, per ovvie
ragioni, più evoluto dei terrestri, gli sceneggiatori lo resero rozzo
come un Neanderthal e lo fecero avanzare con un bastone sulla
passerella elettrificata intento ad avventarsi sugli umani
gratuitamente proprio come gli indiani facevano contro i cowboys. Un bruto con poco cervello, con cui non valeva la pena di tentare comunicazione... e infatti fu fritto con la corrente elettrica! Tra l'altro, per giustificare il tutto, misero lo scienziato che tentava di parlargli (in inglese ovviamente) e veniva regolarmente ammazzato. Praticamente la stessa regola di non parlare agli indiani, se non si vuol finire scotennati!
Il ricordo deve restare un ricordo, tralasciando gli incredibili svarioni che ci propinarono a quei tempi.