Leonardo
Cavon era immerso in uno strano sogno.
Era
a casa sua, ma non riposava nel suo letto. Infatti era sdraiato
dentro una capsula d’ibernazione!
Cuscino
comodo, pareti imbottite, un freddo pungente eppure ben tollerato in
ogni parte del corpo. In quel sogno navigò tra i ricordi e, oltre al
suo nome, recuperò la sua età, sessant’anni, il suo mestiere,
ricercatore specializzato in biocriogenia e i tratti di un volto
femminile che gli fecero digrignare i denti per il nervosismo.
Quel
viso apparteneva alla sua ex moglie.
Era
l’unico elemento che stonava col successo raggiunto nella sua
maturità: aveva ricevuto il Premio Nobel proprio per aver
perfezionato il sistema di ibernazione, era diventato milionario
grazie ai diritti sulle scoperte scientifiche, aveva girato il mondo
e si era divertito. Forse i soldi avevano contribuito a distruggere
il suo matrimonio, ma di questo ormai non si curava più; si
rammaricava solo per non aver avuto figli. Gli era stata preclusa
quell’immortalità generazionale tipicamente umana che permetteva
di sconfiggere il Tempo.
Ma
lui aveva inventato un modo più intelligente di sconfiggere quel
subdolo bastardo. I legami col suo mondo, vista l’assenza di una
famiglia, si erano spezzati. Non aveva più ragioni per vivere nel
2068.
Del
resto, nel suo sogno il 2068 era lontano, l’aveva superato da
secoli ed era in attesa di vedere un mondo migliore... nel futuro.
In
un angolo della sua mente, un pensiero cosciente emerse e pose una
domanda impertinente.
Come
è possibile che abbia ricordi di un sogno?
Durante
il sonno criogenico, la fase REM era del tutto assente. Anche in un
sogno, il suo subcosciente di scienziato non avrebbe mai potuto
compiere un errore simile. Il fatto che invece lui sognasse poteva
significare una cosa soltanto: era davvero
dentro
una capsula d’ibernazione e la sua coscienza stava riaffiorando
lentamente, vicina al risveglio.
Sentì
un formicolio diffuso, riuscì a muovere le dita e subito dopo
strinse i pugni. Mosse le dita dei piedi, mosse i piedi e le gambe.
Aprì gli occhi.
Sul
vetro offuscato dal ghiaccio della sua capsula vide proiettati i
parametri vitali, erano regolari, colorati in verde. Lampeggiando in
blu, alla sua sinistra, apparve il tempo rimanente alla fine del
processo di rianimazione: quattro minuti.
Attese
trepidante il passare di quei duecentoquaranta secondi. Un getto di
vapore annunciò l’attivazione del meccanismo di apertura, il
coperchio bianco lucido della capsula con la visiera di vetro posta
all’altezza del viso si alzò e fu libero.
Sfortunatamente,
si drizzò sulla schiena con eccessiva velocità e batté la fronte
sull’apertura che si era sollevata solo per tre quarti davanti a
lui.
«Stramaledetta
di una...». Lasciò a metà l’imprecazione e si toccò il bozzo
cresciuto sulla fronte. «Grazie, Futuro, per questo magnifico
benvenuto».
Tra
una selva di maledizioni, sollevarsi comportò non poca fatica, a
causa dell’età e del lungo intervallo di inattività. Un individuo
più giovane avrebbe fatto meglio? Forse. E il supporto di uno staff
medico sarebbe stato utile? Certo che sì, ma nessuno poteva
prevedere quale situazione l’ibernauta avrebbe incontrato nel
futuro, perciò era il computer della capsula che pensava a tutto:
sostituiva lo staff medico e l’aveva appena “scongelato”.
Si
staccò di dosso uno a uno i sensori a ventosa che servivano per
monitorarlo; mise una gamba fuori della capsula, poi l’altra e si
alzò in piedi.
Barcollò
come un ubriaco. Dovette aggrapparsi a un bordo del coperchio.
Dai,
Leonardo,
mettici
un po’ d’impegno, per la miseria, si
incitò al secondo tentativo.
Fece
qualche passo incerto, poi divenne più sicuro e fermo sulle gambe.
Riacquistò in breve la sua forza, i sistemi di sostentamento
criogenico avevano funzionato a dovere. Controllò il display sulla
capsula: lampeggiava l’anno 7945.
Gli
scappò un fischio di sorpresa. «Sei stata dannatamente efficiente,
non per niente ti ho creata io».
Rifilò
una pacca alla capsula, quasi fosse stata un vecchio amico. Passato
l’autocompiacimento professionale, si guardò attorno. La stanza
che fungeva da camera criogenica si trovava nel laboratorio interrato
sotto la sua villa, situata alla periferia di Verbania.
Restava
una sola cosa da fare: mettere il naso fuori e scoprire com’era il
mondo nell’anno 7945.
Di
passaggio davanti allo specchio, la sua immagine riflessa lo
scandalizzò. I capelli grigi erano in piedi come se avesse infilato
un dito in una presa elettrica e la tuta criogenica, finissima e
percorsa da tubi cuciti nel tessuto che servivano per completare il
monitoraggio dell’organismo, metteva in evidenza con precisione
scultorea parti anatomiche di cui non andava particolarmente fiero,
come del resto la sua ex.
Anche
la pancia prominente lo faceva apparire abbastanza ridicolo. Si
diresse all’armadietto in fondo alla stanza, lo aprì, si tolse la
tuta, la ripiegò per bene e indossò gli abiti che aveva riposto lì
dentro qualche millennio prima: camicia sobria, giacca, pantaloni e
scarpe eleganti nere.
Pose
una mano sulla cassaforte murata in una parete, affinché il sistema
di sicurezza biometrico della casa lo riconoscesse e l’aprisse.
Estrasse una decina di custodie in cui conservava la sua collezione
di orologi. Aveva lottato per l’intera vita contro il Tempo, ma non
poteva fare a meno di avere uno strumento che lo calcolasse.
Scelse
il suo modello preferito tra gli antichi esemplari a carica manuale.
Gli altri digitali avevano esaurito le batterie che probabilmente non
esistevano più in quell’epoca.
Lo
impostò sulle dodici, non sapendo l’ora precisa in quella sua
nuova vita.
Nel
sistemare l’orologio al polso, si soffermò per un attimo a leggere
il proprio nome sul cinturino d’oro. Quell’esemplare era stato un
dono del suo gruppo di ricerca quando aveva vinto il Nobel. Rivisse
con soddisfazione le stesse sensazioni provate nel momento in cui
l’aveva ricevuto.
Era
un genio, un benefattore dell’Umanità, c’era poco da discutere.
Pettinò
i capelli bianchi che gli davano quell’aspetto eccentrico, un po’
da scienziato pazzo, utilizzando il pettine e il piccolo specchio
dell’armadietto. Infine si fece coraggio, era ora di andare.
Nessun commento:
Posta un commento