lunedì 31 dicembre 2018
lunedì 24 dicembre 2018
Buon Natale
Buon Natale a tutti… o quasi.
Per
questo Natale sono un tantino amareggiato. La Befana dei vigili del
fuoco è tornata a Cascina, con un nuovo team e addirittura con i
paracadutisti ad arricchire l’evento.
Sarà
un successo! Pompieri e Parà blindati insieme per rievocare la
simpatica vecchina e far sorridere tanti bambini.
Tuttavia
sono triste perché nessuno mi ha cercato per fare qualche nuova
illustrazione e quelle che avevo realizzato per le precedenti
manifestazioni sono state messe da parte. Circola già la locandina
con i disegni di un “altro”, o magari presi da immagini stock in
rete.
Cancellato
senza neppure una telefonata. Che simpatici colleghi che ho…
Buon Natale a tutti meno che a loro.
domenica 16 dicembre 2018
Bene, Male o Caos?
Il
Diavolo abbassò una leva e girò due manopole, lo schermo rotondo
posto in mezzo all’intreccio di tubi divenne sempre più brillante
e il vapore scaturì da dietro la macchina.
«Eccolo!
Eccolo! Ne arriva un altro!»
esultò.
Un
lampo fuoriuscì dallo schermo e lo illuminò, inebriandolo
dell’energia che bramava. La grotta divenne rossa per un attimo,
poi la luce svanì.
«Uno!»
si innervosì «Oggi soltanto uno! Non posso andare avanti così».
Si
tormentò nervosamente la barba. Specchiandosi nello schermo vide con
soddisfazione la propria immagine riflessa: villoso, forte, rosso e
soprattutto cornuto! Proprio come l’avevano immaginato gli umani.
Ma
era stata davvero la scelta giusta? Quell’altro era stato più
furbo.
Fare
del bene? Gli uomini non ne sono capaci,
aveva detto. Se
scegli il Male parti in vantaggio.
E
poi ti do una copia della macchina che ho inventato, vedrai…
giocheremo ad armi pari.
Maledetto
imbroglione! Perché si era fidato di quel genio spregevole e
subdolo? Perché due entità così potenti dovevano essere costrette
a dividere lo stesso mondo?
Il
Diavolo cambiò aspetto per rabbia!
Divenne
un uomo alto e biondo, poi si trasformò in Ciclope e infine in
Satiro. Effettivamente il Satiro somigliava molto al Diavolo.
Sorridendo, pensò a quanto fosse misera la fantasia degli esseri
umani. Rise anche per quanti nomi avevano inventato per lui: Satana,
Mefistofele, Demonio, Lucifero… tutte sciocchezze.
Beh,
non era il momento di abbattersi. L’energia rossa perdeva sempre
più terreno rispetto a quella azzurra, ma lui aveva un asso nella
manica: il familio
organico stava raggiungendo la roccaforte del suo nemico, di
quell’essere odioso che gli umani chiamavano Dio.
Poveri
ingenui, non lo conoscevano veramente: quel falso Dio furbacchione
aveva mandato un suo familio
oltre la barriera dimensionale. E questo, appena arrivato sulla
Terra, aveva dato a bere agli umani un mucchio di fandonie,
assicurando al capo un’incredibile schiera di seguaci. Gli spiriti
vitali dei morenti erano captati dalla macchina solo se credevano e
grazie a quello stratagemma divenivano sorgente per l’eternità!
La
voce di Dio arrivò imperiosa dal condotto principale: «Lucifero!».
«Puoi
evitare di chiamarmi così? Non c’è nessun umano qui. Esci dalla
parte, ogni tanto… siamo solo tu e io».
«Hai
inviato un emissario per carpirmi qualche segreto?»
«L’hai
scoperto? Com’è possibile? l’avevo istruito così bene...»
«L’ho
stritolato! Non provarci più, non mi piace chi gioca sporco».
«Senti
chi parla! Sono sempre più a corto di spiriti e tu sapevi che
sarebbe finita così. Gli umani non credono più in me! E anche se
continuano a compiere efferati delitti, i loro spiriti vitali si
perdono nell’etere. Non riesco ad assorbirli».
«Ancora
molte persone credono».
«Certo,
i superstiziosi. Quelli che hai ingannato col tuo emissario».
«Ho
dato loro una speranza».
«Scendi
dal piedistallo, ipocrita! Tu vuoi solo la parte di questo mondo che
ancora controllo. Non t’importa niente di loro».
«Non
è vero» protestò Dio. «Loro contribuiranno alla vittoria del Bene
sul Male».
«Ma
che Bene e Male delle mie corna! La verità è che hai scelto per
primo. E poi secondo me i tuoi adoratori ti hanno montato la testa,
sei impazzito».
Attraverso
il condotto arrivarono una decina di sibili, seguiti da un alone
azzurrognolo. Il Diavolo strinse i pugni stizzito.
«Dieci!
Hai preso dieci spiriti e ostenti la luce attraverso il condotto per
schernirmi!» Colmo d’ira sollevò un masso e ostruì con violenza
il condotto. La voce di sua Immensità, l’Altissimo, giunse
attutita dalla pietra.
Il
Diavolo sentì un brivido lungo la schiena, l’imbroglione aveva
ragione. Se quel ritmo di dieci a uno fosse continuato non ci sarebbe
voluto molto per l’arrivo della fine.
Eppure
doveva reagire, bisognava creare un altro familio,
in fretta. Magari piccolissimo, in modo che fosse difficile vederlo.
Già, ma poi come avrebbe fatto a rubare la macchina? Quella macchina
che l’altro aveva inventato per inviare il suo emissario sulla
Terra e che teneva gelosamente nascosta chissà dove? Il Diavolo si
grattò la testa. Poter mettere gli artigli su quella macchina
avrebbe significato inviare il proprio emissario a far proseliti.
Ovviamente insistendo sul Male.
L’Anticristo!
Quello
sarebbe stato il nome del familio
in missione. Le sciocchezze che avrebbe raccontato erano già pronte,
inventate nel corso dei secoli dagli umani. E magari avrebbe potuto
rendere tutto più credibile compiendo qualche atto cruento contro i
preti, in modo da attrarre i satanisti.
Sì,
sì, sì!
Il
piano era pronto, mancava solo la macchina. Impastò un familio
molto piccolo, provvisto di ali. Gli soffiò in faccia il suo volere
e lo guardò partire. Poi il Diavolo si volse alla macchina
capta-spiriti, armeggiò con leve e bottoni, finché non mise a fuoco
un centinaio di situazioni. Cambiò l’aspetto da Satiro in
splendida donna e lanciò tentazioni a raffica. Il sesso era la sua
arma più banale, ma dava ancora buoni risultati.
***
Dio
si alzò dal trono che si era costruito. Per quella giornata aveva
assunto l’aspetto classico: uomo vecchio e saggio, con folta barba
grigia e capelli d’argento, avvolto nella tunica regale del Regno
d’Israele. Era sempre stato molto gigione e gli sarebbe piaciuto
andare direttamente sulla Terra per farsi ammirare dagli adepti, ma
la macchina inventata non era in grado di trasferire l’intera sua
entità che comunque sarebbe stata instabile nella dimensione degli
umani. Così dovette accontentarsi dell’invio di un galoppino, un
misero familio
organico che eseguì alla lettera i suoi ordini.
Si
avvicinò all’apertura panoramica della fortezza. Pensò al Diavolo
e rifletté su quante difficoltà stesse passando per risolvere quel
problema. Si trasformò in Zeus che aveva un aspetto decisamente più
vigoroso. Brandì la saetta scatenando scintille ovunque e sentì la
gloria dell’antica Grecia scorrere dentro di sé.
Come
era stato più facile prima dell’arrivo dell’altro rappresentante
della sua specie. Maledì la cometa che aveva impattato sul suo mondo
portandolo in dono, in fondo lui era arrivato per primo, perché
doveva avere un rivale? Ai tempi dell’antica Grecia non ne aveva
avuti, era stato il padrone assoluto e si era divertito a impersonare
tutti gli dei dell’Olimpo. Gli umani non si erano accorti della
mancanza di differenze.
Purtroppo
tutto era cambiato con l’arrivo di quell’altro.
Per
fortuna, l’invasore era un sempliciotto: immaturo, inesperto e
sicuramente meno intelligente. Era giunto potente grazie all’energia
della cometa, ma lui era riuscito a tenerlo a bada. Lo aveva
incantato con la sfida, lo aveva convinto che il Male era più
conveniente, ma sapeva da sempre che la Speranza dei mortali era
l’arma che l’avrebbe sconfitto. E presto, ne era sicuro, se lo
sarebbe tolto dai piedi.
L’Immenso
si trasformò in Odino, il dio monocolo dedito alla guerra che
ammirava la forza e il coraggio dei suoi Vichinghi. Ai tempi, quella
era stata un’interpretazione divertente! Peccato che la storiella
di Dio gli fosse sfuggita di mano e i nordici avessero finito per
convertirsi alla religione del vecchio barbuto.
Scacciò
quei pensieri, l’importante era essersi assicurato un flusso
continuo di spiriti vitali. Doveva restare concentrato
sull’obiettivo.
Un
rumore attirò la sua attenzione. Si precipitò nella stanza segreta
dove custodiva il teletrasporto dimensionale con un brutto
presentimento. Appena l’aprì scoprì il piccolo familio
svolazzante sulla macchina.
Il
fatto di essere Odino e avere un occhio solo non l’aiutò certo a
colpire l’infiltrato. Fallì il colpo d’ascia un paio di volte e
quello riuscì a scappare.
Pochi
istanti dopo arrivò, dal condotto, la voce trionfante del Diavolo:
«Ce l’ho fatta! L’ho vista! D’ora in poi la vedrò sempre,
ovunque la nasconderai!»
«Non
illuderti, non sarà facile prenderla».
«Costruirò
centinaia di demoni e ti attaccherò».
«E
io costruirò centinaia di angeli, sarà un Armageddon».
«Ti
vedo, vecchio balordo! Sei nella parte del guercio. Semmai sarà un
Ragnarok».
Trascorsero
solo poche ore e dalla parte rossa del pianeta giunsero schiere di
demoni urlanti, alcuni neppure completamente formati, per la fretta
che il Diavolo aveva avuto nell’impastarli. Da parte sua,
l’Onnipotente attivò gli angeli, riuniti in stormi e armati di
trombe sputaghiaccio.
Lo
scontro avvenne sulla linea di confine: i demoni lanciafiamme
incendiarono e gli angeli congelarono. Terrore, morte e distruzione
calarono inesorabili su tutto e a fine giornata, sul campo, restò
solo una sterminata massa di cadaveri.
***
Era
finita in un noioso pareggio. La situazione di stallo convinse i
signori della guerra a concentrarsi sull’assorbimento degli spiriti
per ricostruire gli eserciti e ricominciare l’attacco il più
presto possibile.
L’Onnipotente
assunse l’aspetto di Maometto,
si sistemò in
piedi davanti alla macchina e armeggiò con leve e manopole
assistendo, sullo schermo, a uno scontro sanguinario. Se l’avesse
visto un terrestre del 1980, avrebbe creduto che stesse giocando con
un videogame da sala giochi.
«Venite
a me… Ah, ah, ah!» rise Dio, traboccante di sadismo. «Che
seguiate Yahweh
o Allāh,
venite a me!»
Premette
il piede su una specie di acceleratore e inoculò motivazione a
pioggia, poi portò al massimo una manopola per imprimere meglio la
sua immagine in quelle menti deboli. I risultati non si fecero
attendere: decine di morti trasmisero i loro spiriti, ci furono lampi
e scintille, e una prolungata luce azzurra lo investì rendendolo
sazio e soddisfatto.
Trasalì
un attimo più tardi, quando vide il mostro che avanzava nello
spazio. L’Altissimo si rese conto di essere impotente di fronte a
ciò che era immensamente più grande di lui.
Anche
il Diavolo si dava da fare con la macchina per attrarre qualche
spirito vitale. Certo, senza l’Anticristo in campo c’era da
lavorare parecchio, ma lui non disperava. Mise a fuoco un tizio che
stava per uccidere la moglie, misurò la sua coscienza: temeva di
finire all’inferno, era combattuto…
Era
perfetto! Bastava dargli un aiutino!
Iniziò
a instillare tentazioni: Fallo!
Sarai libero! La tua amante non dovrà più nascondersi. Finalmente
vi amerete alla luce del sole… e poi l’assicurazione: darai la
colpa ai ladri e potrai riscuoterla. Fallo!! Fallo!!!
L’uomo
inferse almeno venti coltellate e la uccise, il sangue si sparse
ovunque. Gettò il coltello, si tolse i guanti e si apprestò a
distruggerli, per essere sicuro di non lasciar tracce. Ma il Diavolo
azionò l’aggregatore di materia, per piccole quantità funzionava
piuttosto bene. Così una chiazza d’olio si materializzò proprio
sotto i piedi dell’assassino che scivolò cadendo all’indietro e
sbatté violentemente la testa contro un mobile. Morì all’istante.
il racconto contua su Amazon, insieme agli altri undici racconti
mercoledì 12 dicembre 2018
Telepati
Darkest Minds non è un film
ambientato in un futuro distopico, com’è imprecisamente scritto su
Wikipedia. O meglio, la distopia c’è ma è solo la conseguenza
dell’evoluzione della specie, causata da una misteriosa epidemia.
Il film introduce una figura
importante della fantascienza, troppo spesso ignorata da Hollywood,
il Telepate. Purtroppo il target di riferimento sono ancora gli
adolescenti, come è già successo per Divergent e Maze Running. E il
sospetto è che questi film tratti da romanzi estremamente recenti
siano fatti tutti con gli stessi ingredienti: distopia, epidemie,
zombi, superpoteri e protagonisti giovanissimi.
La storia si intreccia attorno alla
paura dei normali nei confronti dei bambini sopravvissuti
all’epidemia, che hanno sviluppato poteri mentali e fisici. Per
questo vengono classificati dal governo in cinque colori: i verdi
(superintelligenti) i gialli (che dominano l’elettricità), i blu
(telecinetici), i rossi (mostri sputafuoco) gli arancione (telepati).
Il mutato più pericoloso per i
normali è senza dubbio l’arancione, capace di dominare le menti di
tutti quelli che gli stanno intorno, capace di leggere i pensieri,
modificarli e inserirne di nuovi. Praticamente il Mulo della trilogia
della Fondazione di Isaac Asimov!
Chissà, forse sarebbe stato
migliore un film realizzato su un classico di Van Vogt: “Il segreto
degli Slan”. Ma probabilmente non sarebbe stato conveniente dal
punto di vista commerciale, perché gli adolescenti sono una miniera
d’oro, per fedeltà alle saghe e per il merchandising. E nel
romanzo di Vogt sono assenti.
Però volete mettere la differenza
dell’idea di base e la forza narrativa in un numero di pagine così
ridotto?
Gli Slan sono una nuova specie nata
dagli esperimenti genetici del professor Samuel Lan, sono telepatici
e si riconoscono facilmente perché hanno le antenne. Gli Umani li
temono e li perseguitano, eppure il protagonista Slan scopre
l’esistenza di una terza specie: telepati senza antenne che non
vedono l’ora che gli Slan siano estinti per poter dominare gli
Umani in santa pace. Si tratta di un meccanismo formidabile, talmente
azzeccato che Hollywood non l’ha preso neppure in considerazione.
Etichette:
fantascienza,
film,
Isaac Asimov,
libri
lunedì 10 dicembre 2018
Un racconto da Inumani
Ozxad manovrò la cloche per
diminuire la velocità della nave, abbassò tre leve sulla consolle e
sentì zittire i motori di poppa. Ammirò per qualche istante le
stelle in quel sistema casa dei suoi acerrimi nemici: gli umani!
Era troppo tempo ormai che si
trascinava la guerra spietata, costata già l’esistenza a sei
colonie del suo popolo. Bisognava metter fine al massacro, non
c’erano alternative: una delle due specie doveva soccombere e Ozxad
aveva ben chiaro in mente quale dovesse essere.
Il riflesso della sua immagine nel
vetro della plancia lo inorgoglì, non c’erano esseri più belli e
fieri di lui e di tutti quelli come lui nell’intera Galassia.
Eppure quei ripugnanti umani si consideravano molto più belli e lo
ritenevano addirittura un mostro. Mosse lento i tre occhi sporgenti
da destra verso sinistra per seguire il pianeta che gli stava
scorrendo davanti, sapeva che gli umani lo chiamavano Marte in onore
di un loro antico dio della guerra. Ozxad contrasse i suoi tentacoli
per la rabbia! Dannato dio della guerra e dannati umani attaccati
alle loro stupide religioni!
Controllò il display: motori
spenti. Nessuna energia residua. Avrebbe proseguito per inerzia e
probabilmente sarebbe sfuggito ai sensori nemici, o almeno così
sperava.
Si alzò dalla postazione e con le
ventose dei tentacoli avanzò appiccicandosi al soffitto, al
pavimento e alle pareti. Raggiunse la stiva di poppa. C’era la
bomba che l’aspettava, sorniona, luccicante e zeppa di morte.
Osservò le spie che brillavano con regolarità. Tutto era a posto.
Avere un ordigno del genere così vicino metteva paura, averlo
attaccato sotto la nave, invece, sarebbe stato meglio... per sentirsi
più tranquilli, anche se ai fini della pericolosità non ci
sarebbero state differenze: se fosse esplosa, fuori o dentro, avrebbe
distrutto la nave comunque. Ma la bomba era organica e risentiva
degli influssi del vuoto assoluto, per questo doveva restare immersa
nella sua atmosfera fino a poco prima dell’impiego. Certo, quando
fosse stata lanciata avrebbe iniziato a deteriorarsi, e proprio
questo era il fattore innescante.
Una spia cambiò colore, da verde
divenne rossa, lampeggiò con frequenza tripla rispetto a prima e
Ozxad impallidì. Subito si dette da fare con le leve laterali;
dall’alto calarono spruzzi di vapore viola e poi altre sbuffate che
sfumavano sull’indaco. Alla fine la bomba si stabilizzò e Ozxad
poté rilassarsi. Si voltò verso la plancia e appiccicando veloce i
tentacoli si diresse al posto di guida. Una volta piazzato tornò a
controllare la strumentazione, Marte era ormai alle spalle e la Terra
era in vista. Scrutò i parametri energetici, nessuna scia rischiava
di tradirlo. Lanciò l’ennesima scansione della zona, nessuna
astronave terrestre di guardia. Questo era strano, ma pensò che un
po’ di fortuna a volte non guastava.
La vibrazione della consolle lo
avvisò della comunicazione in arrivo. Ozxad premette un pulsante e
l’ologramma di un suo simile gli comparve davanti. Le vibrazioni,
il sistema comunicativo della sua specie, emanate dal suo
interlocutore, gli furono trasmesse dal computer attraverso ogni
parte solida della nave.
Sentì la situazione intorno al suo
mondo: la flotta terrestre stava forzando il blocco, i difensori si
battevano con valore ma non riuscivano ad arginare gli invasori. Vide
il secondo pianeta del suo sistema esplodere... quei dannati avevano
lanciato i missili antimateria. Non si fermavano dinanzi a niente,
non si facevano scrupoli, distruggere era il loro credo e sembrava
che si divertissero a farlo. Dannati per l’eternità! Per fortuna
la sua specie non era così meschina... per fortuna o per disgrazia,
perché sopravviveva sempre il più aggressivo, l’esperienza
gliel’aveva amaramente insegnato. Ricordò le storie così diverse
dei due mondi in lotta. I terrestri si erano evoluti come predatori,
erano onnivori intelligenti che per sopravvivere dovevano mangiare
carne, oltre ai vegetali, sapevano difendersi dai carnivori e
sapevano che nella vita dovevano azzardare per riuscire. Il loro
istinto predatorio li aveva guidati fino al raggiungimento dell’era
tecnologica. E oggi li guidava alla conquista delle stelle.
I garlas
invece, la sua gente, si erano evoluti come pacifici erbivori e non
avevano mai avuto carnivori intorno a minacciarli, forse perché
nelle loro vene scorreva sangue velenoso, talmente velenoso da
rischiare auto-infezioni se accidentalmente si fossero feriti. Forse
per questo i carnivori, sul loro mondo, si erano estinti. O almeno,
questo avevano detto gli scienziati esaminando i resti degli animali
preistorici: quel veleno era frutto di una mutazione che aveva dato
una chance agli erbivori, una chance che i cugini terrestri non
avevano avuto. L’istinto dei garlas
però non era predatorio; data la loro natura, ciò che li guidava
era la prudenza. E in questo, Ozxad sentiva di avere qualcosa in meno
rispetto agli umani, qualcosa di negativo in meno, naturalmente, ma
che rischiava di essere fatale.
L’ologramma trasmise altre
vibrazioni, l’espressione del suo simile divenne disperata, Ozxad
sentì di essere l’ultima speranza dei suoi. L’ologramma svanì e
Ozxad, più deciso che mai, attivò la bomba. Si voltò e la guardò
mentre scompariva lenta nella botola che le si era aperta sotto.
Attraverso il display la vide spuntare sotto il ventre della nave,
pronta a essere sganciata. I parametri sulla consolle gli
confermarono il deterioramento della materia organica, l’ordigno
era innescato!
Fu in quel momento che il ricordo
dell’umano che avevano catturato tornò a tormentarlo. Era stato
difficile tradurre il suo linguaggio incomprensibile, isolarlo dai
suoni disturbanti che emetteva parlando e convertire tutto in
vibrazioni, in modo da capire.
Ozxad era stato
presente all’interrogatorio, l’umano era apparso sincero da
subito. Si trattava di un soldato che non condivideva gli obiettivi
dei suoi comandanti, odiava la guerra ma era costretto a combattere.
Aveva gridato che sulla Terra non c’era libertà, un regime
oppressivo li obbligava ad attaccare i garlas
e tanti terrestri erano innocenti e avrebbero voluto essere amici.
Ozxad vibrò per la tensione. Pensò
alla bomba! Una volta lanciata sarebbe esplosa nell’atmosfera
terrestre annientando ogni forma di vita. Avrebbe ucciso milioni di
umani, tra loro anche i pacifisti che soffrivano sotto l’oppressione
di quel regime. Eppure non c’era scelta. Gli umani avrebbero fatto
altrettanto se si fossero trovati in quella situazione. Un umano al
suo posto non avrebbe esitato a lanciare quella bomba.
Portò il suo tentacolo sulla leva
di sgancio, ormai la nave si trovava a un passo dall’orbita esterna
e bastava un gesto per sconfiggere l’odiato nemico. Ma quel gesto
era un crimine orrendo e sarebbe stato lui a commetterlo.
sabato 1 dicembre 2018
Zaygo
Zaygo
si alzò presto, come faceva tutte le mattine. Il suo primo pensiero,
quando si svegliava, era sempre il cibo, per questo teneva alcuni
squynzi di scorta.
Scese dal tubo dove si era
attorcigliato per la notte e si avvicinò alla vasca al centro della
stanza. Immerse la mano, velocissimo. Ci fu un fuggi fuggi generale,
con schizzi d’acqua in tutte le direzioni. Prese lo squynzo più
grosso al primo colpo e lo divorò dalla coda al gozzo gonfio, in un
attimo. Poi infilò la testa nella vasca per bere avidamente, finché
non si sentì dissetato.
Infine si vestì.
Mise la tunica rossa, simbolo di
fuoco e di forza. Lui era un Lorn, apparteneva alla più forte delle
tre specie dominanti di Bhlyss. Le sue squame erano azzurre e i Lorn
andavano fieri di quell’azzurro; era un colore nobile, li rendeva
belli e gloriosi, ma soprattutto diversi da quei maledetti Saytrac
che avevano la pelle dello stesso colore di uno squynzo in avanzato
stato di decomposizione. Un vero schifo.
I Saytrac non erano gli unici nemici
dei Lorn. C’erano gli altri, i Tlazk: rettili piccoli, brutti e
deformi. Essi non meritavano il rispetto di Zaygo, non si erano mai
affidati alla forza e al coraggio per guidare il loro destino;
usavano congegni per fare ogni cosa, anche per combattere.
Lui odiava i Tlazk. E il passato gli
aveva dato buone ragioni per rafforzare quell’odio.
Tuttavia, dopo millenni di guerre, a
un certo punto, si era arrivati a un equilibrio precario dettato
dall’emergenza. Erano stati quei ripugnanti Umani a renderlo
possibile. Dei mostri dalla pelle liscia, senza scaglie, con cespugli
di peli sulla testa.
Zaygo ringhiò immaginandoseli
davanti.
Quegli orrendi esseri erano venuti,
armati fino ai denti, per conquistare Bhlyss. Ed erano riusciti
involontariamente a unire tutti i rettiliani.
All’inizio, ciascun popolo aveva
reagito all’invasione umana in modo indipendente, collezionando una
lunga serie di sconfitte. Solo per la necessità di sopravvivere, il
rancore che separava le tre specie si era sopito, pur bruciando
ancora oggi, come la brace sotto la cenere.
Sebbene uniti, Lorn, Saytrac e Tlazk
avevano perso la guerra e dovuto affrontare la sottomissione.
Sottomissione,
rifletté Zaygo, con una smorfia di rabbia a imbruttirgli il suo
grugno squamoso al solo pensiero.
Per anni la sua gente aveva dovuto
sopportare l’umiliazione della schiavitù. La rinuncia alle tuniche
rosse, l’obbedienza incondizionata, il lavoro forzato a fianco
delle altre specie rettiliane inferiori... Era stata un’epoca di
sofferenza e mortificazione per qualsiasi Lorn nato sotto il sole di
Sirio.
Finché qualcosa era successo tra i
conquistatori.
Aveva ancora nelle orecchie il
discorso fatto da un umano chiamato il Presidente. Era giunto su
Bhlyss annunciando una nuova era di fratellanza.
«Saremo
vostri amici, se lo vorrete» aveva detto in un discorso pieno di
retorica. «Ciò che è avvenuto in passato non accadrà mai più,
perché potremo condividere con voi il bene per cui noi stessi
abbiamo lottato: la libertà».
Ed era ripartito insieme agli altri
invasori. Dopo tutto il male che avevano fatto, se n’erano andati
mendicando il perdono dei loro schiavi e parlando di libertà
concessa.
«La libertà si conquista e gli
schiavi si sfruttano» disse a voce alta Zaygo, sibilando per il
disprezzo.
Gli Umani non avevano mai compreso
né i Lorn né la convivenza delle tre specie su Bhlyss. Di certo,
non si erano guadagnati la fiducia di nessuno, nemmeno dopo la Grande
Liberazione.
Con l’umore guastato da quei
pensieri, Zaygo indossò l’armatura. Impugnò il guanto sicli e
controllò la daga a tre lame. Lo scatto era perfetto, la ripose nel
fodero.
Quando uscì all’aperto, il cielo
rosso era limpido, l’aria più calda del solito. Restò fermo a
riscaldare il suo sangue per qualche attimo, era piacevole farlo in
quelle magnifiche giornate.
Con calma gustò il panorama, dalle
alte pareti di roccia che proteggevano la valle, coperte da piante
variopinte, ai muri verde smeraldo e le cupole argento e oro delle
case che facevano sapere al mondo quanto fossero nobili i Lorn.
Tutta la città risplendeva.
Né i Tlazk né i Saytrac dovevano
avere la possibilità di ammirare tanta bellezza mettendo piede nella
sua città, lui l’avrebbe impedito.
Un forte stridio arrivò dall’alto.
Vide il terreno scurito da un’ombra e alzò lo sguardo. Un
gigantesco Kurr, gracchiando, passò sopra di lui e con le ali
provocò un vento impetuoso.
Com’era maestoso quell’animale!
I Kurr che volavano liberi, i loro
simili domati che portavano i Lorn in cielo, la sua città che
prosperava all’aperto, a differenza di quelle dei Tlazk nascoste
sottoterra... Ogni cosa intorno a lui gli confermava che il suo
popolo viveva nella Natura più di quanto facessero le altre specie.
Era giusto così, perché i Lorn esistevano per dominare Bhlyss. E se
non c’erano ancora riusciti, era solo perché il destino era
divenuto capriccioso, mettendosi per traverso e riservando loro
quella piaga che erano gli Umani.
Zaygo decise di attraversare la
piazza in pietra per raggiungere l’ampio colonnato dove venivano
deposte le uova. Camminò ondeggiando il corpo con quell’andatura
tanto naturale su Bhlyss quanto bizzarra per gli abitanti della
Terra, perché erano abituati a veder strisciare i serpenti sul
terreno.
Si affacciò sull’area a forma di
conca. C’erano, tutte ordinate, migliaia di coppe riproduttive, e
in ognuna era stato deposto un uovo. In lontananza vide alcune
femmine occuparsi della attività non legate alla guerra. Così era
stato dall’alba dei tempi; questo non perché fossero più deboli
dei maschi, una femmina Lorn valeva quanto cento umane, ma
semplicemente per divisione dei compiti.
Erano guerriere rispettate e
combattevano solo quando dovevano difendere i piccoli. In quel caso,
divenivano rabbiose e determinate più dei maschi. Zaygo ripensò
all’ultima incursione Saytrac e a come le femmine li avevano
scacciati dalla città senza che i maschi avessero dovuto sfoderare
le loro daghe. Sogghignò e le sue zanne brillarono alla luce di
Sirio A.
«Zaygo, ti senti forte oggi?» lo
richiamò Drigo, un altro valoroso guerriero. Come lui, si muoveva in
modo sinuoso, da vero serpente.
«Mi sento forte, Drigo. E il calore
di Bar aumenta sempre più la mia forza».
«I Tlazk stanno preparando
qualcosa, vedo lampi lontani e di notte sento strani echi».
«Credi che preparino una guerra?».
«Non si può mai sapere cosa
preparano quei viscidi, comunque noi siamo pronti. È tanto ormai che
gli Umani se ne sono andati, le vecchie alleanze non contano più».
Sentirono gracchiare dall’alto e
furono investiti da una folata di vento. Un imponente Kurr, ricco di
penne colorate, atterrò davanti a loro. Ripiegò le ali enormi e i
becchi posti all’estremità delle tre proboscidi si chiusero. Da
buon animale domato, aspettava solo che il suo padrone salisse.
«Drigo, sei diventato un
cavalcatore di Kurr?».
«Dovevo, per forza. Ci sarà
bisogno di noi in battaglia. I guerrieri migliori sono quelli che
attaccano dal cielo». Montò sul Kurr. «Che il coraggio non ti
abbandoni mai, Zaygo».
«Che il coraggio ci segua entrambi,
Drigo».
Il Kurr prese il volo col suo
padrone, tra battiti d’ali possenti e turbini d’aria.
La città lentamente si stava
svegliando. Tanti Lorn erano usciti in strada e cominciavano a
svolgere la proprie attività.
Zaygo vide arrivare una squadra di
dieci soldati, ondeggiavano flessuosi e impugnavano fucili a energia.
Le armi a raggi erano per la truppa, perché solo a pochi eletti,
come lui, spettava l’onore di combattere con armi a lama.
«Rispetto al Portatore della Daga!»
gli gridarono quei Lorn, di passaggio, lasciando per un attimo i
fucili con una mano e mostrando gli artigli.
Anche lui artigliò, fiero.
Chissà, forse stava per scoppiare
un’altra guerra contro i Tlazk. Poteva darsi che quel periodo di
pace fosse il preludio alla tempesta e lui si sarebbe presto trovato
davanti tanti avversari da abbattere. Non temeva nessuno, soprattutto
quei nani rossi coperti di tecnologia inutile. Che venissero pure,
lui li avrebbe aspettati per farli a pezzi. E dopo si sarebbe di
certo sfamato con tanti squynzi e dissetato con molta acqua.
Improvvisamente, gli arrivò addosso
l’ennesima ventata. Guardò in alto pensando all’arrivo di un
altro Kurr.
Invece, il cielo era vuoto.
Appena
abbassò lo sguardo, si accorse che proprio davanti a lui si stava
aprendo un buco
nell’aria... che dava sul nulla. Rimase fermo per qualche secondo a
osservare la novità, incurante di qualsiasi pericolo. Un Portatore
della Daga non aveva paura di nulla, perché un nemico avrebbe potuto
prendergli solo la vita, non l’onore.
Intorno all’apertura si formò un
vortice che iniziò a girare sempre più forte. Il buco si allargò e
il vento che ne uscì buttò tutti a terra, anche Zaygo.
Quando si rialzò, vide qualcosa
muoversi là dentro. Pareva una specie di tempesta, cupa e in
continuo tumultuo. E c’erano tante figure lontane che stavano
arrivando.
Qualsiasi cosa
sia, non è niente di buono, pensò.
D’istinto, estrasse la sua daga.
Lo scatto fece uscire le altre due lame e fu pronta. Dal guanto
sicli, con un altro scatto, si aprì lateralmente la spada a forma di
scimitarra.
Ciò che sbucò dal vortice nero fu
un vero incubo, preceduto da un urlo agghiacciante che sembrava
giungere direttamente dall’Inferno. Uscirono in massa, assetati di
sangue. Zaygo rimase impassibile, ben piantato sulle zampe e pronto
allo scontro.
«Altro
sangue per la mia daga!» urlò, brandendola con sicurezza.
sabato 24 novembre 2018
Pirati del tempo
Abilene
era una cittadina in cui non ci si annoiava mai. Negli ultimi tempi
l’avevano animata violente sparatorie, dove diversi uomini di legge
avevano concluso la loro giornata stesi a terra e appesantiti dal
piombo.
Il
carico d’oro in arrivo da Fort Scott attirava sicuramente i
peggiori ceffi del Kansas come api sul miele, ma lo sceriffo Wild
Bill Hickok non se ne preoccupava più di tanto.
Quella
mattina tenne sotto controllo la strada davanti alla banca
accarezzando le sue Colt Navy. Gli aiutanti, dietro di lui,
imbracciavano nervosi il Winchester e masticavano tabacco.
Il
carro arrivò mezz’ora più tardi scortato da dieci soldati a
cavallo e si fermò davanti a loro. Hickok si guardò intorno:
sembrava tutto tranquillo, troppo tranquillo.
«Liscio
come l’olio, sceriffo!» disse il sergente mentre smontava dalla
sella.
«Può
darsi, ma occhi aperti. I pendagli da forca non mancano e quell’oro
fa gola. Verranno, anche se per prenderlo, rischiano di suicidarsi».
La
porta di legno della banca si aprì e ne uscirono due impiegati.
Hickok li guardava accarezzandosi i baffi con le dita. Quelli là,
lui, non li considerava uomini.
Stavano dietro una scrivania e maneggiavano solo soldi. Sapeva che
non avevano nemmeno un briciolo di coraggio, altrimenti non si
sarebbero scelti quel lavoro. La loro colpa più grave, era che non
sapevano usare la pistola. Era quello che ai suoi occhi definiva chi
era un uomo e chi invece una donnicciola.
I
due si avvicinarono sotto il suo sguardo schifato, spingendo un buffo
carrellino sul quale cominciarono a caricare i lingotti. Il cocchiere
del carro scese ad aiutarli.
«Il
Signor Bennett la ringrazia per l’aiuto, sceriffo...» dissero
accennando un sorriso.
Hickok
restò impassibile e non rispose; i due spinsero il carrello carico
fino alla porta; qualcuno da dentro aprì e li fece entrare.
La
banda arrivò al galoppo sparando all’impazzata. Probabilmente non
conoscevano l’uomo che si preparava ad affrontarli e non sapevano a
che cosa andavano incontro.
Alcuni
di loro si erano arrampicati sul tetto del Saloon e puntavano i
fucili sul carro e sui soldati.
Non
fecero in tempo a sparare un colpo. Lo sceriffo li vide e aprì
subito il fuoco.
Sparò
in modo alternato, prima con una pistola e poi con l’altra. Ne
colpì uno, che cadde giù dal tetto, poi un altro, che sparì dietro
la grossa insegna del Saloon. Al terzo, colpito in pieno, volò il
cappello. Perse il Winchester e rovinò pesantemente sulla tettoia
dell’edificio. Rotolò per un paio di metri e rimase immobile,
esanime.
Altri
banditi arrivarono a cavallo. Furono subito bersagliati dai soldati
blu. Uno fu disarcionato da una fucilata. Cadde a terra morto e il
suo destriero proseguì nella corsa.
Gli
aiutanti di Hickok spararono decisi senza muoversi dalle loro
posizioni. Prendevano con calma la mira mentre gli avventati
fuorilegge venivano avanti. Molti di questi furono abbattuti mentre
passavano.
Anche
tra i difensori qualcuno si accasciò fulminato dal piombo.
La
sparatoria terminò alla svelta e i banditi si ritirarono come cani
feriti. Il loro attacco, alla fine, aveva portato solo più lavoro al
becchino.
Lo
sceriffo si affrettò a ricaricare le sue Colt: non era il momento di
rilassarsi. Intimò al suo vice di riunire gli uomini per controllare
la situazione nella banca. Uno dei suoi era ferito e zoppicava,
mentre tra i soldati c’erano stati due morti; ma era un problema
del sergente e non ci si soffermò.
La
scena che si trovò di fronte Wild Bill Hickok quando entrò nella
banca lo sorprese parecchio: da una parte c’erano tutti gli
impiegati con le mani alzate che guardavano nella stessa direzione e
dall’altra un bandito col volto nascosto dalla bandana e la pistola
in pugno che li teneva sotto mira.
Ai
suoi piedi, in una sacca, c’era tutto l’oro... che stava
rimpicciolendo. Era una cosa assurda. Hickok sgranò gli occhi
convinto di sognare. Scosse la testa, poi si rese conto che quello
che vedeva succedeva realmente. Il bandito teneva nella mano sinistra
qualcosa di simile a una lanterna e la luce che irradiava sul giallo
metallo lo faceva diminuire di volume. Era già diventato abbastanza
piccolo e leggero da poter essere trasportato da una sola persona.
Lo
sceriffo si riprese dallo stupore, ma intanto aveva perso quei due o
tre secondi che bastarono al bandito per raccogliere la sacca e
fuggire.
Si
slanciò verso una porta in fondo alla stanza. Hickok estrasse le sue
pistole e sparò ma lo mancò per un pelo, cosa che gli accadeva di
rado. Il fuorilegge chiuse con violenza la robusta porta di legno
dietro di sé.
«Cosa
c’è di là? Un’altra uscita?» chiese Hickok al bancario
tremante che rispose balbettando:
«Que...
quella è la stanza delle scope...»
«Apri
la porta!» tuonò lo sceriffo al suo aiutante, mentre teneva le
pistole spianate.
Il
vice, con la fronte imperlata di sudore, girò con prudenza la
maniglia e spalancò l’uscio. Era sicuro che quello all’interno,
vistosi perso, avrebbe vomitato tutto il fuoco possibile dalla sua
pistola.
Wild
Bill Hickok sparò all’impazzata numerosi colpi. Il fumo delle Colt
che offuscava i suoi occhi di ghiaccio si diradò; ripose
l’artiglieria nel fodero e si accarezzò i lunghi baffi.
«Per
mille bottiglie di whiskey, ma qui non c’è nessuno!»
Una
piccola sfera metallica stava nell’angolo dello stanzino pieno di
scope e attrezzi da lavoro. Lo sceriffo la notò subito perché aveva
una luce rossa lampeggiante che iniziò a lampeggiare sempre più
velocemente, finché la frequenza fu tanto alta da farla sembrare una
luce continua. Ne seguì un sibilo acuto e poi la sfera deflagrò.
Non
ci fu calore ne distruzione, solo una folata di vento che investì i
presenti. Hickok si guardò intorno e si chiese una cosa sola...
Ma
cosa era successo?
***
Tutte
le volte sentivo quel maledetto senso di nausea, il buio m’inseguiva
anche se avevo fatto il salto.
In
tutti i salti nel tempo c’era sempre l’intervallo, il limbo che
ti rubava altro tempo, che ti faceva stare al buio. Ed io odio il
buio.
Il
tunnel temporale mi stava conducendo all’uscita. Era una sensazione
virtuale, in realtà non mi spostavo nello spazio. Poi finalmente
vidi la luce in fondo a tanta oscurità: era il mio biglietto per il
ritorno a casa. In questa fase avveniva l’unico movimento reale,
verso un’altra zona dell’America.
Chiusi
gli occhi per via del bagliore crescente, li riaprii e mi ritrovai al
sicuro nel covo, le spalle contro il muro e il bottino ai miei piedi.
Ce
l’ho fatta anche questa volta. Ma c’è mancato poco, quel
bastardo sapeva il fatto suo.
Mi
avvicinai al frigo bar, avevo bisogno di una birra. Non sapevo
neppure se la bomba temporale aveva fatto il suo dovere.
Ma
sì, l’aveva fatto di sicuro, quegli aggeggi funzionavano sempre.
Creavano una frattura nella quarta dimensione che impediva un nuovo
viaggio dal punto dell’esplosione fino ai dieci anni precedenti.
Era
un gingillo vietato. Possedevo molti congegni illegali, come, ad
esempio, la mia macchina del tempo spallabile. D’altra parte
anch’io sono molto illegale: sono un ladro!
Raccolsi
la sacca e vuotai il contenuto nel ridimensionatore ionico. Lo misi
in funzione e poi mi buttai pesantemente sulla mia poltrona
preferita. Mi gustai con calma la birra.
***
«L’ha
fatto un’altra volta! Abbiamo la traccia lasciata dalla bomba. Ha
colpito in Kansas, nel 1871».
Il
capitano della cronopolizia sbatté forte il pugno sul tavolo, mentre
la sua squadra lo ascoltava in silenzio.
«Da
quando si sono diffuse quelle dannate diavolerie, è sempre più
difficile prenderli, e questo qui sembra averne una discreta
scorta!».
«Forse
se le costruisce da solo» azzardò un agente.
«Già,
un ladro ingegnere elettronico e forse anche scienziato. Ma anche un
uomo come tutti gli altri! Lo farà uno sbaglio, prima o poi! Giuro
che quel giorno lo inchioderò».
Pieno
di collera, il capitano del distretto 9 della sezione cronopolizia si
lasciò cadere a peso morto sulla sedia mettendosi le mani nei
capelli. Quel ladro gli stava dando troppi grattacapi. Non era il
solito sprovveduto che si attrezza con una macchina del tempo da due
soldi e torna indietro per indovinare i numeri della lotteria. Gente
come quella la sua squadra se la cucinava per colazione. Questo
invece puntava su eventi rischiosi, a volte poco documentati e
impiegava tutta la tecnologia moderna. Prenderlo diventava molto più
difficile.
Eppure
dovevano prenderlo. Si stava prendendo gioco di loro. E questo, al
capitano non andava giù.
Iscriviti a:
Post (Atom)