sabato 24 novembre 2018

Pirati del tempo



Abilene era una cittadina in cui non ci si annoiava mai. Negli ultimi tempi l’avevano animata violente sparatorie, dove diversi uomini di legge avevano concluso la loro giornata stesi a terra e appesantiti dal piombo.
Il carico d’oro in arrivo da Fort Scott attirava sicuramente i peggiori ceffi del Kansas come api sul miele, ma lo sceriffo Wild Bill Hickok non se ne preoccupava più di tanto.
Quella mattina tenne sotto controllo la strada davanti alla banca accarezzando le sue Colt Navy. Gli aiutanti, dietro di lui, imbracciavano nervosi il Winchester e masticavano tabacco.
Il carro arrivò mezz’ora più tardi scortato da dieci soldati a cavallo e si fermò davanti a loro. Hickok si guardò intorno: sembrava tutto tranquillo, troppo tranquillo.
«Liscio come l’olio, sceriffo!» disse il sergente mentre smontava dalla sella.
«Può darsi, ma occhi aperti. I pendagli da forca non mancano e quell’oro fa gola. Verranno, anche se per prenderlo, rischiano di suicidarsi».
La porta di legno della banca si aprì e ne uscirono due impiegati. Hickok li guardava accarezzandosi i baffi con le dita. Quelli là, lui, non li considerava uomini. Stavano dietro una scrivania e maneggiavano solo soldi. Sapeva che non avevano nemmeno un briciolo di coraggio, altrimenti non si sarebbero scelti quel lavoro. La loro colpa più grave, era che non sapevano usare la pistola. Era quello che ai suoi occhi definiva chi era un uomo e chi invece una donnicciola.
I due si avvicinarono sotto il suo sguardo schifato, spingendo un buffo carrellino sul quale cominciarono a caricare i lingotti. Il cocchiere del carro scese ad aiutarli.
«Il Signor Bennett la ringrazia per l’aiuto, sceriffo...» dissero accennando un sorriso.
Hickok restò impassibile e non rispose; i due spinsero il carrello carico fino alla porta; qualcuno da dentro aprì e li fece entrare.

La banda arrivò al galoppo sparando all’impazzata. Probabilmente non conoscevano l’uomo che si preparava ad affrontarli e non sapevano a che cosa andavano incontro.
Alcuni di loro si erano arrampicati sul tetto del Saloon e puntavano i fucili sul carro e sui soldati.
Non fecero in tempo a sparare un colpo. Lo sceriffo li vide e aprì subito il fuoco.
Sparò in modo alternato, prima con una pistola e poi con l’altra. Ne colpì uno, che cadde giù dal tetto, poi un altro, che sparì dietro la grossa insegna del Saloon. Al terzo, colpito in pieno, volò il cappello. Perse il Winchester e rovinò pesantemente sulla tettoia dell’edificio. Rotolò per un paio di metri e rimase immobile, esanime.
Altri banditi arrivarono a cavallo. Furono subito bersagliati dai soldati blu. Uno fu disarcionato da una fucilata. Cadde a terra morto e il suo destriero proseguì nella corsa.
Gli aiutanti di Hickok spararono decisi senza muoversi dalle loro posizioni. Prendevano con calma la mira mentre gli avventati fuorilegge venivano avanti. Molti di questi furono abbattuti mentre passavano.
Anche tra i difensori qualcuno si accasciò fulminato dal piombo.
La sparatoria terminò alla svelta e i banditi si ritirarono come cani feriti. Il loro attacco, alla fine, aveva portato solo più lavoro al becchino.
Lo sceriffo si affrettò a ricaricare le sue Colt: non era il momento di rilassarsi. Intimò al suo vice di riunire gli uomini per controllare la situazione nella banca. Uno dei suoi era ferito e zoppicava, mentre tra i soldati c’erano stati due morti; ma era un problema del sergente e non ci si soffermò.

La scena che si trovò di fronte Wild Bill Hickok quando entrò nella banca lo sorprese parecchio: da una parte c’erano tutti gli impiegati con le mani alzate che guardavano nella stessa direzione e dall’altra un bandito col volto nascosto dalla bandana e la pistola in pugno che li teneva sotto mira.
Ai suoi piedi, in una sacca, c’era tutto l’oro... che stava rimpicciolendo. Era una cosa assurda. Hickok sgranò gli occhi convinto di sognare. Scosse la testa, poi si rese conto che quello che vedeva succedeva realmente. Il bandito teneva nella mano sinistra qualcosa di simile a una lanterna e la luce che irradiava sul giallo metallo lo faceva diminuire di volume. Era già diventato abbastanza piccolo e leggero da poter essere trasportato da una sola persona.
Lo sceriffo si riprese dallo stupore, ma intanto aveva perso quei due o tre secondi che bastarono al bandito per raccogliere la sacca e fuggire.
Si slanciò verso una porta in fondo alla stanza. Hickok estrasse le sue pistole e sparò ma lo mancò per un pelo, cosa che gli accadeva di rado. Il fuorilegge chiuse con violenza la robusta porta di legno dietro di sé.
«Cosa c’è di là? Un’altra uscita?» chiese Hickok al bancario tremante che rispose balbettando:
«Que... quella è la stanza delle scope...»
«Apri la porta!» tuonò lo sceriffo al suo aiutante, mentre teneva le pistole spianate.
Il vice, con la fronte imperlata di sudore, girò con prudenza la maniglia e spalancò l’uscio. Era sicuro che quello all’interno, vistosi perso, avrebbe vomitato tutto il fuoco possibile dalla sua pistola.
Wild Bill Hickok sparò all’impazzata numerosi colpi. Il fumo delle Colt che offuscava i suoi occhi di ghiaccio si diradò; ripose l’artiglieria nel fodero e si accarezzò i lunghi baffi.
«Per mille bottiglie di whiskey, ma qui non c’è nessuno!»
Una piccola sfera metallica stava nell’angolo dello stanzino pieno di scope e attrezzi da lavoro. Lo sceriffo la notò subito perché aveva una luce rossa lampeggiante che iniziò a lampeggiare sempre più velocemente, finché la frequenza fu tanto alta da farla sembrare una luce continua. Ne seguì un sibilo acuto e poi la sfera deflagrò.
Non ci fu calore ne distruzione, solo una folata di vento che investì i presenti. Hickok si guardò intorno e si chiese una cosa sola...
Ma cosa era successo?

***

Tutte le volte sentivo quel maledetto senso di nausea, il buio m’inseguiva anche se avevo fatto il salto.
In tutti i salti nel tempo c’era sempre l’intervallo, il limbo che ti rubava altro tempo, che ti faceva stare al buio. Ed io odio il buio.
Il tunnel temporale mi stava conducendo all’uscita. Era una sensazione virtuale, in realtà non mi spostavo nello spazio. Poi finalmente vidi la luce in fondo a tanta oscurità: era il mio biglietto per il ritorno a casa. In questa fase avveniva l’unico movimento reale, verso un’altra zona dell’America.
Chiusi gli occhi per via del bagliore crescente, li riaprii e mi ritrovai al sicuro nel covo, le spalle contro il muro e il bottino ai miei piedi.
Ce l’ho fatta anche questa volta. Ma c’è mancato poco, quel bastardo sapeva il fatto suo.
Mi avvicinai al frigo bar, avevo bisogno di una birra. Non sapevo neppure se la bomba temporale aveva fatto il suo dovere.
Ma sì, l’aveva fatto di sicuro, quegli aggeggi funzionavano sempre. Creavano una frattura nella quarta dimensione che impediva un nuovo viaggio dal punto dell’esplosione fino ai dieci anni precedenti.
Era un gingillo vietato. Possedevo molti congegni illegali, come, ad esempio, la mia macchina del tempo spallabile. D’altra parte anch’io sono molto illegale: sono un ladro!
Raccolsi la sacca e vuotai il contenuto nel ridimensionatore ionico. Lo misi in funzione e poi mi buttai pesantemente sulla mia poltrona preferita. Mi gustai con calma la birra.

***

«L’ha fatto un’altra volta! Abbiamo la traccia lasciata dalla bomba. Ha colpito in Kansas, nel 1871».
Il capitano della cronopolizia sbatté forte il pugno sul tavolo, mentre la sua squadra lo ascoltava in silenzio.
«Da quando si sono diffuse quelle dannate diavolerie, è sempre più difficile prenderli, e questo qui sembra averne una discreta scorta!».
«Forse se le costruisce da solo» azzardò un agente.
«Già, un ladro ingegnere elettronico e forse anche scienziato. Ma anche un uomo come tutti gli altri! Lo farà uno sbaglio, prima o poi! Giuro che quel giorno lo inchioderò».
Pieno di collera, il capitano del distretto 9 della sezione cronopolizia si lasciò cadere a peso morto sulla sedia mettendosi le mani nei capelli. Quel ladro gli stava dando troppi grattacapi. Non era il solito sprovveduto che si attrezza con una macchina del tempo da due soldi e torna indietro per indovinare i numeri della lotteria. Gente come quella la sua squadra se la cucinava per colazione. Questo invece puntava su eventi rischiosi, a volte poco documentati e impiegava tutta la tecnologia moderna. Prenderlo diventava molto più difficile.
Eppure dovevano prenderlo. Si stava prendendo gioco di loro. E questo, al capitano non andava giù.

giovedì 15 novembre 2018

Vichinghi



Capitolo 1

 
«Odino ci ha condotti qui da Miðgarðr. Sfiorando Múspellsheimr ha attraversato Ginnungagap nel buio assoluto sul gigantesco drakkar d’acciaio. Ricordalo sempre, Gunnar!»
Gunnar ascoltò suo nonno Håkon, re dei Vichinghi, e fu come se assistesse realmente al viaggio fantastico che gli narrava; immaginò i possenti uomini del Nord intenti a veleggiare tra le stelle guidati da un dio. Immaginò e sognò a occhi aperti...
«Ricorda!» aggiunse il re scuotendolo dai suoi sogni. «Odino ammira il coraggio! Ci ha donato un mondo intero e si aspetta risolutezza nel difenderlo dai tre popoli invasori che cercano di strapparcelo. Se dovessimo morire combattendo, lui ci accoglierà nel Valhalla. Ma se fuggiremo, se non saremo abbastanza forti e ci comporteremo con disonore, allora ci disprezzerà e saremo dannati per sempre». Lo sguardo del re nonno, che già di per sé era severo e grave, si fece minaccioso. Gunnar si spaventò. Ma a quel punto il re, che comprese di aver esagerato, sorrise: «Lo so che hai solo otto anni, Gunnar» continuò stringendolo a sé «eppure devi diventare un grande guerriero, come lo è stato tuo padre, mio figlio!» Colto da un momento di debolezza il re si lasciò andare, una lacrima gli scese sulla guancia. Strinse gli occhi più volte cercando di soffocare la sofferenza e distolse lo sguardo dal bambino. Un re non dovrebbe mai piangere, soprattutto davanti ai propri eredi. Calò il silenzio nella sala del trono deserta. Nonno e nipote si abbracciarono, illuminati dal fuoco dei bracieri.
«Dov’è Odino, nonno?»
«Vive sulla Grande Montagna, la più alta che vedi a est, davanti alla porta di Kåreheim».
«Tu l’hai mai visto?»
«No. Ma tuo padre... tuo padre è con lui».
«Il Valhalla è sulla Grande Montagna? Posso andare da mio padre, lassù?»
«Non puoi. Forse ti ho confuso con i miei discorsi... un giorno rivedrai tuo padre, ma quel giorno è ancora molto lontano. Adesso va da tua madre e riposa. E ricordati che per un vichingo il tempo è molto importante. Vedrai: il tempo farà di te un uomo».
«Ti voglio bene nonno».
«Anch’io te ne voglio, Gunnar».

***

Trascorsero due lustri e Gunnar crebbe forte e coraggioso. Re Håkon morì in battaglia, affrontando i Möss alla testa dei suoi berserkir, durante l’ennesimo assalto alle mura di Kåreheim. Lo zio di Gunnar, Eirik, salì al trono. Si trattava di un vero vichingo, di quelli con la pirateria nel sangue, che giocavano più d’astuzia e meno d’impeto sui nemici... mostrando forse poco onore, ma raggiungendo sempre i suoi obiettivi. E forse era proprio di uno come lui che i Vichinghi avevano bisogno, per sopravvivere ai Möss, gli orrendi ratti alti come un uomo, puzzolenti e violenti, che camminavano curvi e si battevano come bestie prive di intelletto. Oppure avevano bisogno di lui per difendersi dai terribili Ørne che attaccavano dal cielo, o dai giganteschi Hunde pelosi capaci di uccidere, anche da soli, dieci uomini alla volta.
Eirik riuscì a tenere a bada i nemici per due lustri. Potenziò la flotta di drakkar e snekke che, grazie all’acqua magica, volavano sulle lande ghiacciate di Niflheimr come sentinelle. I Vichinghi conobbero così un lungo periodo di tranquillità.

***

In un pomeriggio più freddo del solito, di quelli in cui il fiato che esce sotto forma di vapore rischia di solidificarsi all’istante in cubetti di ghiaccio, due cacciatori si aggiravano tra gli alberi colmi di neve, spingendo una slitta.
Si fermarono. Uno dei due preparò arco e freccia, la preda era vicina.
«L’hai sentito, Ingrid?»
«No».
Gunnar le indicò tra gli arbusti, dritto davanti a lei. Poi tese l’arco, prese con calma la mira sullo svinekød che si confondeva in mezzo a tutto quel bianco e scoccò un colpo micidiale. Il bestione goffo e peloso irrigidì le antenne, gli occhi simili a quelli della mosca divennero vitrei e cadde con un tonfo sordo.
«L’hai centrato!» gridò Ingrid.
«Sbaglio mai un colpo?» le rispose lui, ridendo.
Ingrid spinse la slitta verso l’animale abbattuto, Gunnar si sistemò l’arco a tracolla e la seguì. Insieme caricarono la bestia.
Il giorno morente tinse di rosso il cielo, la sera avrebbe presto ceduto il passo alla notte e le tre lune divennero sempre più visibili e allineate.
«Le Norne ci controllano, Gunnar» sospirò Ingrid mentre le osservava.
«Quelle tre vecchie tessono la trama del nostro destino».
«Cosa avranno preparato per noi?»
«Quando sarò al cospetto di Odino, ammirerà il mio coraggio e mi accoglierà nel Valhalla. Qualsiasi cosa abbiano deciso per me quelle tre vecchie!» Gunnar sorrise e afferrò Ingrid con una stretta vigorosa. «Ma fino a quel giorno staremo sempre insieme» e la baciò. Lei contraccambiò con passione.
Sopra le loro teste, oltre le cime degli alberi, scivolò una snekke. Gunnar e Ingrid riuscirono a vederla per un attimo appena, tanto era fitta e colma di neve, la vegetazione.
«Vuoi vedere il pozzo di acqua magica di Snorri? È qui vicino».
«Quello dove comanda quella smorfiosa di Borghild?» Ingrid l’allontanò da sé, estrasse la spada e dette un’imbroccata, bloccando a pochi millimetri dalla gola. «Ricordati che sei mio! Se ti scopro con un’altra saprò cosa tagliare».
«Sono sicuro che scherzi. E poi Borghild è brutta» ridacchiò lui, ma il sorriso gli si spense sulla faccia. Restarono così per qualche secondo, circondati dal bosco silenzioso, immobili.
«Forse è meglio lasciar perdere quel pozzo».
«Forse...» gli rispose lei. Sorrise. E dal sorriso passò a una grassa risata. Rinfoderò la spada e l’abbracciò. «Torniamo. La caccia è andata a buon fine e ci meritiamo una serata davanti al fuoco dei bracieri, comodi sotto calde pellicce».
Gunnar si dette da fare con la slitta, Ingrid l’aiutò e iniziarono a scivolare verso Kåreheim.

Capitolo 2 

 
L’alba fredda del giorno seguente illuminò il panorama. Le cime innevate che accerchiavano la Grande Montagna, sorvegliante severa di Niflheimr, sembravano al confronto solo leggeri rilievi. In cielo apparve il drakkar che volava a vela spiegata verso sud, verso i confini delle terre ghiacciate. La polena a forma di drago, possente e minacciosa, dava l’impressione di essere la prima sentinella tra i Vichinghi dell’equipaggio.
La quiete mattutina fu interrotta.
«Laggiù! Vedo qualcosa!» gridò Olaf, a prua. Aguzzò la vista parandosi dal sole col palmo della mano e appena fu sicuro di aver identificato l’avvistamento aggiunse: «Sono Hunde! Corrono sulla neve più veloci del solito».
Pål l’affiancò massaggiandosi nervoso la folta barba rossa. «Sono proprio Hunde. E corrono in direzione di Kåreheim».
«Sono pochi per tentare un assedio...»
«Non tenteranno mai un assedio, perché li fermeremo prima!» sguainò la spada, afferrò lo scudo attaccato allo scafo e sbraitò: «Øystein! Portaci giù! Li faremo a pezzi e voglio essere il primo a colpire! Yahhh!!!»
Øystein abbassò il timone laterale che azionò due alettoni, il drakkar scese in picchiata. L’acqua magica che bagnava lo scafo senza asciugare mai, produsse energia preziosa e portò sostegno alla forza del vento sulla vela.
A terra, gli Hunde si fermarono. Ostentarono le mazze ferrate e le clave uncinate, ruggirono in segno di sfida e attesero.
Mentre il drakkar scendeva e i Vichinghi tendevano i loro archi pronti a scoccare le frecce, avvenne qualcosa di inaspettato. Uno stormo di figure alate bucò le nubi e si avvicinò in rotta di collisione.
«Ørne! Ci attaccano!» gridò qualcuno.
Chi fu abbastanza veloce da voltarsi e cambiare bersaglio scagliò la sua freccia. Ma servì a poco. Ben presto le ali rapaci calarono su tutti, e becchi e artigli acuminati colpirono. In molti caddero urlanti, feriti, dilaniati. Riparati dietro gli scudi, i superstiti risposero con le spade e con le scuri. Olaf roteò più volte la sua ascia bipenne per imprimere maggior forza al colpo e tagliò di netto la testa a un Ørne. Combatterono con coraggio, ma gli Ørne, che bevevano l’acqua magica prima di andare in battaglia e si caricavano di energia, vomitarono lampi di fuoco dagli occhi. Scudi e elmi divennero roventi, alcuni uomini in fiamme si gettarono dal drakkar urlando.
Chi teneva il timone mantenne la calma e manovrò per planare sulla neve, in modo che la picchiata non finisse in catastrofe. A quel punto, però, gli Hunde dilagarono sulla nave e i berserkir, attaccati su due fronti, capirono che era la fine. Agitarono asce e spade. Il loro grido di battaglia privo di paura sovrastò i nemici, si gettarono nella mischia e morirono combattendo. Per loro si sarebbero certamente spalancate le porte del Valhalla.

***

Quella sera re Eirik, seduto sul trono, aveva radunato i suoi uomini migliori davanti a sé.
«Ørne e Hunde insieme, com’è possibile?» sbraitò.
«Abbiamo trovato le loro carcasse in mezzo a quella mattanza» gli rispose Øyvind, il vichingo più alto e più grosso di tutti. «Forse si sono alleati».
«Se è così vinceranno la guerra. Controllano la terra e l’aria. Gli resta precluso il sottosuolo, ma i Möss sono troppo stupidi per tenergli testa o per allearsi con noi».
«I Möss sono il popolo più numeroso, si riproducono a un ritmo incredibile. Sarà difficile sterminarli».
Il re si tormentò nervoso la barba nera. «I Möss sono una piaga, non una risorsa. Eppure noi possiamo allearci con qualcuno che è infinitamente più potente dei nostri nemici».
«Chi?»
«Odino».
Le facce sconvolte da tanto ardimento fecero comprendere al re che avrebbe avuto difficoltà a reclutare seguaci per l’impresa che aveva in mente.
«Zio...» osò Gunnar, ma si corresse subito dopo l’occhiata di rimprovero del re. «Sire... non possiamo neanche entrare nella Grande Montagna. E poi come si può pensare di sfidare un dio?»
«Non lo sfideremo, chiederemo il suo aiuto!» rispose Eirik. «Abbiamo la chiave per entrare nella sua dimora».
Øyvind sollevò il suo enorme martello. «Quest’arma e il mio braccio sono ciò che di più potente abbiamo a Kåreheim. Non esistono chiavi per accedere al Valhalla, lo sanno tutti. Ma farò quel che devo per abbattere il portone d’ingresso, se me lo chiederai, mio re».
«Non sarà necessario, amico mio.» Con un cenno chiamò la figlia Åse, che se ne stava in fondo alla sala tenendo tra le mani una cesta coperta da un telo.
Åse sfilò in mezzo ai guerrieri e si fermò di fronte a suo padre.
«Scopri la cesta» le ordinò lui.
Lei eseguì rivelando un oggetto molto dissimile da una chiave: lucente, di forma cilindrica, con tre piccoli fori laterali dentro i quali brillavano prepotenti tre luci rosse.
«Che magia è questa?» chiese sbalordito Gunnar.
«Questa, Gunnar, è la chiave di Odino. Rubata da re Ragnar durante il lungo viaggio attraverso Ginnungagap».
Øyvind, con prudenza, toccò la chiave. Poi la prese con entrambe le mani e la sollevò.
«È... leggerissima!»
«È magica. L’ha forgiata Odino per metterci alla prova. Dobbiamo dimostragli che siamo astuti, oltre che forti e coraggiosi. Quando ci vedrà entrare nella sua dimora resterà meravigliato e ci aiuterà a distruggere i nostri nemici».
Riuscì a convincerli. I guerrieri brandirono le armi e gridarono in coro: «Eirik! Eirik! Eirik!».

***

Due giorni dopo il drakkar per la missione era pronto a salpare dalla torre più alta di Kåreheim. Ingrid, con le lacrime agli occhi, strinse forte Gunnar. «Torna tutto intero, amore mio» gli sussurrò e lo baciò.
«Lascialo in pace, donna! Non può partire col tuo pianto nelle orecchie!» sbraitò Eirik.
«Tuo zio è più stupido di uno svinekød dei boschi» bisbigliò lei a denti stretti.
«È anche il tuo re. Il nostro re».
«Sì, ma quanto era meglio re Håkon».
«Sbrigati Gunnar!» gridò Øyvind mentre mollava l’ormeggio.
«Eccomi, arrivo» Gunnar dette un ultimo bacio fugace alla sua donna e corse verso il drakkar che ormai si stava allontanando dal molo. Spiccò un salto e riuscì a saltarci dentro per un pelo. Øyvind rise di gusto, Eirik si voltò con lo sguardo a prua mentre la vela si gonfiava e la nave prendeva velocità.
Attraversarono il cielo sorvolando le lande ghiacciate diretti alla Grande Montagna. Il viaggio fu molto lungo, durò giorni e giorni. I drakkar superavano le vette più alte dei monti comuni, ma la Grande Montagna era altissima, oltre la quota consentita dal potere dell’acqua magica. Così quando la raggiunsero ormeggiarono il drakkar alla parete di roccia innevata, lasciarono alcuni uomini a guardia della nave e iniziarono a inerpicarsi a piedi. Ben presto si scatenò una tormenta che gli sputò la neve in faccia per ore, lottarono con tutte le loro forze per andare avanti. Esausti, arrivarono a un riparo naturale tra le rocce e fecero una sosta nella speranza che il clima ostile si placasse.
Qualche ora più tardi il vento si era calmato e la neve aveva smesso di cadere, così decisero di riprendere la salita. Giunsero davanti a un ammasso di pietre messo lì per far da barriera a chi avesse tentato di scalare oltre. Non si fecero intimidire e cominciarono ad arrampicarsi.
Echeggiò un tonfo, e poi un altro e un altro ancora. I Vichinghi erano aggrappati alle pietre quando videro affacciarsi dalla cima della barriera un gigante, con folta barba e lunghi capelli bianchi. Brandiva un’ascia bipenne talmente grande che sarebbe bastata a spazzarli via tutti con un solo colpo.
Il coraggio dei Vichinghi era famoso, i berserkir si gettavano nella mischia e combattevano fino alla morte per guadagnarsi il Valhalla, ma attaccare un gigante era un inutile suicidio. In molti iniziarono a scendere terrorizzati. Eirik gridò, tentando di tenerli uniti, ma per la prima volta in vita sua li vide scappare davanti al nemico. Gli restarono al fianco solo Gunnar e Øyvind e comprendendo che non aveva speranze di farcela ordinò: «Indietro! Presto!»
Scesero in fretta e corsero a riparasi, con gli altri.
Il gigante, che si era affacciato agitando l’ascia, restò immobile per qualche minuto e poi si ritirò dietro la barriera scomparendo alla vista.
Eirik si massaggiò la barba, qualcosa non lo convinceva e decise di indagare. Ordinò agli altri di aspettarlo lì e con prudenza tornò alla barriera. Iniziò a scalarla di nuovo. Salì fino il punto in cui erano arrivati prima e udì echeggiare un tonfo, poi un altro e un altro ancora. Dalla cima si riaffacciò il gigante che brandì ancora col medesimo movimento l’ascia. Il re represse il terrore che lo consumava e si arrampicò, fino ad arrivare all’ultima pietra, ai piedi del mostro. Si tirò su. Alzò lo sguardo. Il gigante avrebbe potuto schiacciarlo all’istante, invece se ne stava fermo a fissare il vuoto e ogni tanto agitava l’ascia, sempre con gli stessi movimenti. Eirik lo attraversò. Era incorporeo.
I Vichinghi, increduli, videro svanire il loro re nella gamba del mostro e poi lo rividero apparire e far loro cenni gridando: «È solo un fantasma! Venite, non c’è nessun pericolo».



mercoledì 7 novembre 2018

Antologia di fantascienza NASF 14





 
Il mio racconto “L’uomo di Europa” è pubblicato in questa antologia di 249 pagine! Sono felice, sono in compagnia di tanti bravi autori che bazzicano nel forum NASF su AssoNuoviAutori.org.
Ebbene?
I Forum sono preistorici? Facebook è il futuro?
Può darsi... 
Siamo un po' come i giapponesi che continuavano la guerra nelle isole del Pacifico anche quando ormai la Seconda Guerra Mondiale era finita.
La gente non legge e i film hanno preso il posto dei libri? Chi se ne frega, noi scriviamo lo stesso. I pochi lettori leggono solo i best sellers? La pubblicità, con frasi del tipo "autore da un milione di copie vendute", onnipresenti sulle copertine della grande distribuzione guidano gli acquisti? Ovvio! E noi insistiamo, chi se ne frega? Noi scriviamo lo stesso.
Scrivere è anche divertirsi e sicuramente fin qui ci siamo divertiti! Aggiungerei che scoprire racconti scritti col cuore potrebbe sorprendere soprattutto il lettore di best sellers...
Tuttavia l’universo è sottoposto alla legge del Caos! E può darsi che quel lettore non avrà mai una simile fortunata sorpresa, perché senza pubblicità tutto dipende dalle coincidenze astrali, dalle tempeste magnetiche e dall'influenza dei buchi neri.