lunedì 21 gennaio 2019

Ucronia Romana


La Galea attraccò nel porto della colonia Victorum, in Amentus Magna, quando ormai il tramonto infiammava il cielo. I motori elettrici rallentarono attenuando l’attività delle turbine e appena lo scafo sfiorò il pontile potenti rostri idraulici lo bloccarono. Il clima mite, il verde che accerchiava le mura e l’acqua tiepida rendevano quel luogo molto simile a Roma, anche se era dalla parte opposta del Mondo.
Il console Claudio Quinzio sbarcò scortato da un Manipolo di Pretoriani gentilmente concessi dall’Imperatore perché vegliassero sulla sua persona durante la permanenza nel Nuovo Mondo. Ad attenderlo c’era una Centuria schierata, il Centurione avanzò di un passo e alzò il braccio in segno di saluto.
«Ave console Quinzio, eravamo in trepidante attesa del tuo arrivo» disse con voce marziale.
Poi fece un passo di lato lasciando il campo al tribuno consolare Flaminio Metello, governatore provvisorio della Colonia. Si trattava di un tipo che era sempre stato sullo stomaco a Quinzio: viscido, ambizioso, senza scrupoli e anche senza onore! Un uomo forse adatto a fare il politico a Roma, ma estremamente deleterio lì, nel Nuovo Mondo.
«Console Claudio, quale immenso piacere averti con noi. L’Imperatore sa bene quanto il Proconsole e io siamo riusciti a ben amministrare la Colonia. Presto fonderemo la prima città. Ho deciso che la chiameremo Raptores e sarà l’orgoglio di Roma».
«Come sta il proconsole Gracco?»
«Purtroppo devo darti una triste notizia: il Proconsole è morto. Le ferite riportate durante la vile imboscata dei pellerossa non gli hanno lasciato scampo».
«Barbari! Avete inflitto loro la giusta punizione?»
«Abbiamo bruciato tre villaggi. E tutti quelli che non sono morti in combattimento sono stati crocifissi. Ma le tribù si stanno alleando e... beh, con sole tre Legioni non riusciamo più a contenerli».
«Il Proconsole ha sottovalutato il nemico. Roma sta allestendo una flotta speciale che imbarcherà sette Legioni, dobbiamo risolvere il problema dei barbari una volta per tutte per stabilizzare questa nuova Provincia. È il mio incarico e non fallirò come il mio predecessore».
«Siamo onorati del vigore che porti da Roma, console Quinzio. Sono sicuro che sotto il tuo comando schiacceremo i barbari». L’adulazione di Metello produsse una smorfia di disprezzo sulla faccia di Quinzio. Il Tribuno la notò, sorrise e tranquillo proseguì. «Ho inviato una Galea a esplorare le terre a Sud, pare che là esista un grosso Regno di pellerossa ben più civilizzati di quelli che combattiamo qui. Forse converrebbe attaccarlo subito, appena avremo a disposizione le nuove Legioni».
«No. Abbiamo conquistato l’Impero Cinese solo dopo aver consolidato tutte le Province romane nella Partia. E anche questa volta faremo lo stesso. Prima ci prenderemo le terre del Nord, le renderemo forti nonostante siano lontane da Roma e poi potremo pensare a conquistare quel Regno».
«Sei tu lo stratega e noi abbiamo piena fiducia in te, lo sai bene».
«Indicami il mio alloggio, devo riposare. Domani preparerò un piano d’azione».
Il Tribuno, con fare sempre più mellifluo, gli fece cenno di seguirlo: «Avrai le stanze del Proconsole, sono le uniche degne del tuo rango. E per domani abbiamo preparato un convivium in tuo onore».
Il Console non commentò, scortato dai Pretoriani seguì Metello. La Centuria si mosse marciando in direzione opposta, verso il castrum.


***


Il deserto illuminato dalla luna sembrava più freddo di quanto in realtà non fosse. Un crotalo strisciò sulla sabbia e si fermò sotto un cactus. Percepiva la presenza della preda e non vedeva l’ora di immobilizzarla col veleno, per poi divorarla.
Ci fu un lampo. Il gelo divampò per un raggio di alcuni metri cristallizzando il crotalo e il topo che, proprio in quel momento, aveva messo la testa fuori dalla tana. Apparve una bolla sospesa a mezz’aria, divenne sempre più grande, finché calò cullandosi sul terreno ormai congelato.
Deflagrò.
Il calore ridusse il ghiaccio a un acquitrino e al posto della bolla restò una nuvola di vapore che si diradò lentamente svelando due uomini sdraiati l’uno accanto all’altro, fradici, provati per gli sbalzi di temperatura. Si rialzarono a fatica.
«Stai bene, Vasiliy?»
«Sto bene, compagno. E tu?»
«Potrei star meglio... Ma ora controlla l’attrezzatura».
Vasiliy allungò la mano proprio dietro di sé. Prese una grossa sacca di cuoio, l’aprì ed esaminò il contenuto. Estrasse due bracciali e ne porse uno al compagno. Entrambi li indossarono, azionando il pulsante laterale. Si illuminò un piccolo display e iniziarono a scorrere dati e parametri.
«Sembra sia andata bene: non vedo anomalie nelle nostre funzioni vitali».
L’altro uomo tirò fuori dalla sacca uno strumento triangolare provvisto di asta retrattile acuminata. Lo avvicinò a terra e l’asta si allungò di scatto conficcandosi in profondità.
«Sonda attivata» disse. Quindi estrasse gli ultimi due oggetti contenuti nella sacca: due pistole, piuttosto tozze, argentee e con la Stella Rossa impressa sull’impugnatura. Entrambi verificarono i caricatori, le spie luminose ne confermarono il funzionamento.
Trascorsero alcuni minuti in cui i due viaggiatori rimasero immobili per recuperare le forze.
«Nikolay...»
«Sì?»
«Quanto ci mette la sonda a identificare questa Terra? Non voglio fare la fine di Andrey e Leronim».
«Hanno fatto la fine che meritavano... volevano fuggire dal Soviet, ma hanno trovato solo la morte».
«Non continuare a ripetermi la versione del Partito. I compagni scienziati hanno sbagliato, li hanno mandati su una Terra piena di piante assassine!»
«I compagni scienziati non sbagliano, non credere alle storie dei dissidenti» gli replicò Nikolay mostrando però ben poca convinzione.
La sonda impiegò dieci minuti a stabilire la posizione, l’epoca e soprattutto l’universo in cui erano capitati. A ciclo concluso le spie di attività iniziarono a brillare e Nikolay esultò: «Ecco la lettura! Siamo sulla Terra giusta. L’Africa è interamente elettrificata dal manufatto alieno, le forme di vita in tutto il continente sono ridotte quasi a zero».
«E i Romani? A che punto è l’espansione dell’Impero?»
«C’è qualcosa che non va... forse siamo finiti troppo in avanti nel tempo...»
«Lo vedi che qualcosa hanno sbagliato?»
«Non è possibile... i calcoli erano corretti».
«Di quant’è lo scostamento sulla linea temporale?»
«Milleottocento anni dopo Cristo, sempre se qui contano gli anni dalla sua nascita».
«Non nominare quell’uomo!»
«E tu non cominciare col tuo snervante ateismo da Soviet Supremo! Era comunque un uomo buono!»
«Lo conoscevi?»
«No, ma mi hanno parlato di lui».
«Lo vedi? Anche tu credi alle storie dei dissidenti. E non venirmi a dire che la Russia era cristiana ai tempi dello Zar perché vai contro il Partito come farebbe un fascista qualunque».
«Mia nonna era credente. E anche mia madre, però di nascosto, perché mio padre si arrabbiava se la scopriva a pregare».
«Stavo scherzando!» Vasiliy rise di gusto, ma rendendosi conto che l’amico c’era rimasto male corresse il tiro «Scusami, era solo per dimostrarti che tutti abbiamo dei dubbi. Non c’è niente di male. Però, a proposito di Cristo... mi torna in mente il rapporto della missione precedente. Se non sbaglio c’era scritto che su questa Terra i Romani hanno scelto Mitra e contano gli anni dal suo avvento ufficiale nell’Impero, ai tempi di Costantino. Quindi dovremmo essere più o meno nel millecinquecento».
«Hai ragione, me n’ero dimenticato».
Vasiliy sganciò dalla sonda un elemento a forma di piccola piramide e l’assicurò alla cintura. «Diamoci da fare, bisogna trovare in fretta il punto preciso per piazzare il tracciatore dimensionale. La nostra posizione attuale è il deserto del Texas. I Romani hanno fondato la loro Colonia in Louisiana, che di sicuro avrà un altro nome. C’è molta strada da fare, andiamo».
Nikolay si accorse di avere la cerniera della tasca aperta, iniziò a frugarsi preoccupato. «Cazzo! Ho perso le pillole!». Ancora più preoccupato: «Come faccio a mantenermi idratato?»
«Tieni, le ho portate doppie». Vasiliy recuperò dalla tasca una manciata di pillole gialle e blu e gliele porse. «Ci sono anche le Z-92 per decuplicare la resistenza fisica».
«Grazie».
Nikolay ne ingoiò subito due. Stessa cosa fece il suo compagno e dopo qualche minuto l’effetto iniziò a manifestarsi. I muscoli divennero ipertonici e l’idratazione del corpo raggiunse il novanta per cento. Probabilmente farmaci di quel genere causavano seri danni a lungo termine, forse accorciavano la vita. Ma un vantaggio lo produssero subito: donarono una supervelocità temporanea ai due esploratori dimensionali, che iniziarono a correre più veloci del vento, verso la Louisiana.

giovedì 10 gennaio 2019

Cacciatore di Vlainoc



Capitolo 1


Gannikar e la sua donna Dreisa arrivarono nella valle della Fortezza Umnok, portavano con loro il figlioletto Midro.

La Fortezza era in rovina da quando gli Umnok erano stati sconfitti dalle terribili orde del Nord. Eppure, anche se con parti di mura abbattute e col muschio che saliva dal basso sempre più aggressivo, la struttura appariva ancora oggi imponente: le quindici torri esagonali si innalzavano come picchi inaccessibili e quasi toccavano le nuvole.

Si diceva che bande di massacratori avessero fatto di quel posto la loro base, ma Gannikar sapeva che non era vero. E il motivo era semplice, gli Umnok erano potenti stregoni, praticavano la magia nera e il popolo violento e rozzo dei massacratori li temeva... anche da morti.

I massacratori erano pericolosi e incontenibili, il villaggio degli uomini non era sicuro quanto il luogo maledetto in cui aleggiava ancora lo spettro degli Umnok e per questo motivo Gannikar veniva qui con la famiglia. Questo posto era il più sicuro.

Per lui, oggi era un altro giorno di caccia al vlainoc, l’uccello dalle carni pregiate. E la sua donna con suo figlio dovevano aiutarlo nel trasporto delle prede fino al villaggio.

Guardò verso l’alto le altissime torri. Le erbacce crescevano dappertutto e la pietra scura mostrava innumerevoli fessure, utili per arrampicarsi. Forse era possibile entrare nelle rovine e salire dall’interno, ma poteva farlo un uomo libero da impicci, non un cacciatore di vlainoc con la sua ingombrante bardatura.

Dreisa e Midro l’aiutarono a vestirsi, poi si ripararono dentro le mura, passando per una grossa spaccatura. E si tirarono dietro il piccolo carrello che avevano portato per il trasporto della selvaggina.

Gannikar controllò l’attrezzatura. Le ali pieghevoli e la balestra coi quattro arpioni. Controllò i quattro rulli alla cintura, poi sorrise alla sua donna. Lei, da lontano, seminascosta dalla pietra, ricambiò. Anche il piccolo Midro fece capolino e lo guardò con occhi sognanti. Lo guardava e vedeva un eroe, il suo eroe.

***

Iniziò a salire. Si arrampicava come un ragno, le dita sembravano artigli che facevano riuscivano a far presa sui massi. E questo perché possedeva una forza superiore a quella degli altri uomini del villaggio e nessuno sapeva il perché. Si sapeva solo che pochi erano come lui e che tutti cacciavano i vlainoc.

Salì e salì ancora.

A un certo punto si voltò a guardare la sua famiglia, era certo che lo stessero osservando, infatti li vide affacciati dal loro nascondiglio. Li vedeva piccolissimi. Sorrise.

Volse lo sguardo in su e continuò a salire, pietra dopo pietra.

Salì ancora. Si fermò solo quando fu quasi in cima. Appena trovò la giusta apertura: una larga falla delimitata da mille crepe. Probabilmente la devastazione per un colpo di trabucco.

Salì sulle pietre sconnesse. Si eresse in piedi e si affacciò sul baratro. Tirò la leva che mosse un ingranaggio dell’attrezzatura, le ali si dispiegarono e si sporse in avanti.

Saltò.

Iniziò a planare con eleganza. Dal basso, in controluce, l’aliante cacciatore con la balestra spianata assomigliava a un grosso rapace.

Volteggiò tra le torri scendendo imperioso, aggressivo e attento. Pronto a scorgere la preda.

Girò intorno alla prima e poi ancora tra la seconda e la terza. E proprio passando radente a questa, sulla parete in ombra, scorse due vlainoc artigliati alla pietra: si mossero spaventati e iniziarono a volare tentando la fuga.

Gannikar li mirò col cannocchiale dell’arma. Lanciò un dardo, poi subito un secondo. Andarono a segno entrambi e gli uccelli, trafitti, precipitarono. I volatili restarono attaccati ai rulli della cintura grazie ai dardi collegati con le funi.

Appesantito, prese a scendere più veloce ma mantenne la calma. Sapeva quello che faceva. Compì un’ampia curva e girò intorno alla torre. Più in basso saltarono fuori altri tre vlainoc. Salirono in formazione verso di lui, poi virarono all’ultimo, per sfuggirgli.

Mirò con calma, calcolava sempre un anticipo e tirava il grilletto al momento giusto.

Partì il primo colpo. Il volatile fu infilzato in pieno, e andò in vite.

Ne mirò un altro, sentì lo strattone del terzo animale che rimaneva appeso e tendeva a tirarlo giù. E tenne conto anche di questo mentre mirava.

Sparò.

Centro anche sul quarto! Lo vide precipitare e poco dopo ne sentì il contraccolpo. Ora li aveva tutti e quattro a carico. Il quinto ormai era in fuga e lui non aveva più arpioni, la caccia era finita.

Si accorse che planava troppo forte. Afferrò le due grosse leve che arrivavano da dietro, all’altezza dei fianchi. Tirò forte. Le ali, mediante un complesso meccanismo a ingranaggi, sbatterono lente. Rimandò indietro le leve con fatica e ripeté l’operazione. Le ali sbatterono ancora imprimendo portanza. L’angelo lottava contro l’aria per farsi sostenere. Mosse indietro le leve e poi tirò ancora. Un altro sbatter l’ali potente si scatenò, sentì che poteva bastare, aveva ripreso a planare in modo regolare.

Virò in mezzo alle torri successive e scese. Scese verso la sua famiglia.

Le prede appese toccarono terra prima di lui, strisciando sull’erba e sui sassi. Arrivò vicino al suolo. Mandò indietro le leve e poi tirò ancora, le ali si mossero un’ultima volta, possenti. E gli permisero di atterrare dolcemente. Subito si ripiegarono.

Midro gli corse incontro e lo abbracciò: «Papà!» strinse più forte che poteva.

Dreisa che avanzava subito dietro gli arrivò davanti, lo tirò a sé prendendolo per la giacca e lo baciò.

«Non hai sbagliato un colpo!»

«È andata bene. Barattando questi avremo pelli calde per la notte e viveri».

Gannikar si sganciò le cinghie dello spallaccio e la cintura coi rulli. Dreisa l’aiutò. Mediante una manovella arrotolarono le funi.

Midro estrasse i dardi dai vlainoc aiutandosi con un pugnale e li posizionò sul carretto. Poi, tutti insieme, vi caricarono anche l’attrezzatura alare e la balestra.

Iniziarono a spingere, era ora di tornare a casa.

Capitolo 2
Gannikar e la sua famiglia arrivarono sulla collina. La Fortezza Umnok, vista da quel punto, appariva ancora più imponente e tetra, ma la natura aveva preso il sopravvento. La vegetazione la accerchiava, le piante rampicanti la ghermivano ogni giorno di più. L’immenso maniero degli stregoni neri si sgretolava col tempo.

Non si sapeva molto delle terribili orde del Nord, ma la leggenda narrava che i massacratori facessero parte di quelle schiere. E che fossero i meno pericolosi, in quanto mostri solo a metà, e soltanto di notte.

I massacratori erano in guerra con gli uomini da almeno mille anni. E tutto quello che c’era di documentato su pergamena non arrivava a un’epoca così remota, per cui la storia antica, tramandata a voce, era divenuta confusa.

Si raccontava che gli stregoni neri, nel disperato tentativo di salvarsi, avessero infuso la bestialità delle orde in alcuni uomini, creando abomini. E c’era chi giurava che anche oggi, in alcuni sfortunati, restasse latente una forza demoniaca pronta a esplodere all’improvviso. C’era chi lo giurava, ma Gannikar era sicuro che fossero solo degli invasati.

Raggiunsero le porte del villaggio di Alekma dopo una mezza giornata di cammino. C’erano intorno, tanti grassi mammiferi pelosi che pascolavano lenti masticando l’erba. La loro carne era insipida rispetto a quella dei vlainoc, considerati merce pregiata e venduti a chi poteva permettersi di comprarli. In pratica, i grassi mammiferi erano per i poveracci, i vlainoc per gli abbienti.

Due uomini nascosti tra gli alberi, armati con balestra e spada, fecero un cenno di saluto, erano le vedette esterne. Permisero loro il passaggio. Una palizzata proteggeva le case in legno e pietra della comunità e proprio in quel momento un portone si spalancò per farli entrare.

In mezzo alle abitazioni sorgeva il Korvho, un palazzo massiccio dall’architettura arcaica. Una rocca che doveva assicurare sempre un’estrema difesa.

L’arconte qui risiedeva e amministrava il suo potere. Era il capo, era la Legge e il suo volere non si poteva discutere. Era anche il sacerdote del culto del Sole e da lui dipendeva l’intercessione per avere buoni raccolti o per evitare epidemie tra il bestiame.

Ogni villaggio degli uomini aveva il suo arconte e ogni villaggio era una comunità a sé. Difficilmente nascevano alleanze, tranne quando diventavano necessarie per fronteggiare gli attacchi dei massacratori. Ma in questi casi si portavano dietro scarsa collaborazione.

Spinsero il carretto carico di selvaggina sul sentiero principale del villaggio. C’erano persone che andavano e venivano, indaffarate a portare pelli e casse di legumi, oppure ferme davanti alle case, a lavorare con attrezzi in legno.

In mezzo alla piazza principale c’era la grande pompa meccanica, con ingranaggi sempre in movimento grazie ai moltiplicatori che sfruttavano il vento e tiravano su acqua. Acqua a disposizione di tutti.

Due bambini vennero incontro a Midro correndo. E lui alzò gli occhi a suo padre aspettando un segno di assenso per seguirli nei giochi. Gannikar sorrise e annuì. E in tre corsero via lungo la staccionata della casa del fabbro, per chissà quale avventura scaturita dalla loro fantasia.

«Gannikar, vedo che hai fatto buona caccia, oggi!» disse Tskall, un altro cacciatore di vlainoc, che si avvicinava camminando tranquillo.

«È andata bene. Vado al Korvho, per barattarli con ciò che mi è utile».

«Ti propongo una sfida: chi di noi abbatterà più vlainoc in un sol giorno avrà diritto a prendersi anche quelli dell’avversario. Che ne dici?»

«Mi alletta. Ma non vorrei farti piangere come una donnicciola quando mi vedrai partire col frutto della tua caccia».

«Ah, ah, ah! Riderò invece... riderò perché resterai a mani vuote».

«Ci vediamo alla Fortezza, allora. Ma ricordati che sarò io a fare il bottino più grosso. Vedrai!».

Tskall rise ancora.

«Quando saremo lassù, mi vedrai volare più in alto di te, l’unico tuo vantaggio sarà rinfrescarti alla mia ombra».

Dreisa strinse la mano di Gannikar e lo tirò per sottrarlo a quella stupida perdita di tempo. Tskall non aveva una donna intelligente che lo guidava nelle scelte, per questo era pericoloso. Tutto il profitto che ricavava dalla caccia lo sperperava barattandolo con giare di idromele e con qualche ora passata insieme a donne compiacenti. Lei non voleva che Gannikar lo frequentasse, perché poteva cambiarlo.

Ma la sfida era ormai lanciata e accettata. Tskall puntò il dito su Gannikar e strinse un occhio. Rise beffardamente, li superò e se ne andò per la sua strada, probabilmente pregustando la futura vittoria.

Dreisa non era per niente contenta per come il suo uomo cadesse in simili tranelli. Rischiare la vita ogni giorno per sfamare la famiglia era necessario, ma aumentare i rischi in una stupida competizione poteva renderlo meno accorto e condurlo alla morte. Cosa avrebbe fatto senza di lui? Che futuro avrebbe avuto suo figlio, visto che non era ancora un uomo? Puntò Gannikar stizzita. Lui ebbe una smorfia d’imbarazzo e guardò altrove, sicuro che la tempesta sarebbe passata presto.

Camminarono in mezzo alla gente, fino alla struttura centrale: il cuore del villaggio, il Korvho.

L’entrata era sorvegliata dagli armigeri dell’arconte. Questi osservavano chi entrava e chi usciva con distacco pronti a bloccare i turbolenti o chi a intuito sembrava rappresentare un pericolo. Alcuni di loro non erano neppure del villaggio, molti venivano assoldati tra gli esiliati erranti, gente scacciata dalla terra natia.

Gannikar abbassò lo sguardo per non provocarli, era vero che la guardia armata risultava dura con i villici, ma era anche vero che rappresentava la miglior barriera contro i massacratori. E la difesa, in questi anni bui, era importante.

***

Entrarono nel palazzo, che si allargava in un grande atrio rotondo, con ruvide pareti in pietra illuminate da innumerevoli fiaccole. Al centro, rialzato da alcuni gradini c’era un trono in legno finemente intagliato. L’arconte, comodamente seduto su quello scranno dava udienza.

C’erano cacciatori, donne che offrivano il loro corpo, mercenari di guardia e galoppini che trattavano gli affari per il loro padrone.

Gannikar notò subito, fra tutti, un gruppo di emissari del villaggio di Emyria. Avevano il vessillo del fuoco stampato sull’armatura. Quello più alto, che doveva essere il capo, parlò.

«Emyria è stata attaccata due volte, in questi giorni. Siamo a chiederti rinforzi. Devi mantenere il nostro patto di alleanza, come noi abbiamo fatto quando siete stati attaccati».

«Un debole patto!» gracchiò l’arconte con la sua voce stridula, «avete portato aiuto pretendendo un tributo esoso. I vostri soldati mi sono costati quasi la metà delle mie risorse. L’arconte di Emyria è troppo avido. Rivoglio indietro ciò che vi ho dato! Solo così vi aiuterò».

«I massacratori hanno bruciato i magazzini del villaggio, li abbiamo respinti a fatica e intanto gran parte dei viveri, delle pelli e tutta la riserva di idromele sono andati perduti nell’incendio».

«Allora dovrete respingerli ancora... ma da soli! Non muoverò un solo soldato per voi».

Il pugnale dell’uomo di Emyria scivolò fuori dal fodero talmente veloce che nessuno ebbe il tempo di vederlo e saettò fulmineo piantandosi nel legno del trono proprio sopra il capo dell’arconte. Tutti nel Korvho si zittirono. Lo stesso arconte aveva le parole gelate in gola. Le guardie si fecero avanti, estrassero le spade e, proteggendosi dietro gli scudi, si prepararono alla battaglia.

I soldati di Emyria sganciarono le asce legate sulla loro schiena e le impugnarono pronti a tagliar teste.

«Probabilmente moriremo domani» disse il loro capo, «quindi morire oggi per noi non fa differenza. Bisogna solo scoprire quanti di voi ci seguiranno, forse saranno proprio quelli che chiedevamo come rinforzo. Adrio: sta pronto col pugnale!»

Adrio aveva già la mano alzata e teneva il pugnale per la lama, pronto a lanciarlo.

«Tranquillo Draxo, lo serbo per la fronte dell’arconte!» sorrise.

L’arconte alzò piano il braccio e parlò con voce tremante.

«Lasciateli andare. Ammiro il loro coraggio, avranno presto l’occasione di vantarlo davanti ai massacratori».

Abbassò lentamente il braccio e le guardie rinfoderarono le spade. I soldati di Emyria agganciarono le asce alle schiene, si voltarono senza dare il saluto regale in segno di disprezzo e se ne andarono.

Nella sala del trono nessuno parlava, l’arconte era immobile e visibilmente spaventato, ma tutti dipendevano da lui, aveva appena dimostrato codardia, eppure col potere che possedeva, avrebbe potuto decretare la morte di un uomo anche solo per sfogarsi.

I diaconi del Sole si avvicinarono.

«Lasciate che il Sole vi guidi per uscire dal buio, potente arconte. Questo è il desiderio del popolo».

«Sì» rispose lui altezzoso, «il Sole mi ha già dato un segno. Ed è per questo che ho rifiutato l’aiuto a Emyria, presto i nostri soldati difenderanno Alekma e lo faranno con successo! Non ho altro da dire».

Quest’affermazione ristabilì la normalità e tutti ripresero l’attività che svolgevano prima dell’affronto emyriano. Le donne iniziarono a strofinarsi addosso ai loro clienti e i galoppini portarono avanti le trattative coi contadini e con i cacciatori.

Venne il turno di Gannikar. Un galoppino gli si mise davanti e senza dire nulla esaminò i vlainoc, poi gli offrì tre pelli, una cassa di legumi e tre pezzi di carne secca. E aggiunse: «Ti sembra poco?»

«Non mi sembra poco. Va bene così» si affrettò a rispondere Gannikar, anche se era evidente che era poco. Purtroppo non si poteva vendere la merce ad altri e il prezzo lo faceva il compratore, soprattutto se era l’unico.

Prese ciò che gli avevano dato, aiutato da Dreisa, e uscì.