venerdì 1 dicembre 2023

Un racconto di fantascienza

 


 

 

LA TRINCEA 

© 2016 Marco Alfaroli.

 

La pioggia cadeva con uno scroscio continuo, riducendo la visibilità in quella notte oscura. Rigagnoli d’acqua scorrevano lungo le pareti della trincea, la tettoia di fortuna gocciolava. Anch’io ero bagnato fradicio e il camminamento era ridotto a un acquitrino.

Le grate di ferro piazzate sul terreno per formare un sentiero erano senz’altro utili ma non miglioravano il grigiore che avevo intorno.

Mi ero guadagnato il grado di sergente sul campo, in quella sporca guerra che durava ormai da più di duecento anni. Mio padre aveva combattuto come me nella gloriosa fanteria, della potente Norkheria. L’avevano congedato a causa delle ferite riportate in combattimento. Mio nonno invece era morto difendendo le nostre linee dall’ennesimo assalto delle forze di Estralhia.

Accesi una sigaretta, coprendo il mozzicone col bavero della divisa. Un cecchino poteva ammazzarti mirando a quella debole luce, e io non volevo morire.

Erano ore che non parlavo, i miei compagni li avevo accanto, ma pensavamo tutti solo a scrutare oltre la protezione dei sacchi di sabbia... in attesa.

Davanti a noi tutto era buio; non c’era niente che si muovesse. Si vedevano solo macerie bagnate dalla pioggia, terra bruciata e fumo. Il nemico se ne stava nascosto come noi nelle trincee e anche se la situazione sembrava tranquilla, non conveniva sporgersi troppo.


Qualcuno si accorse che il canarino che tenevamo in una gabbietta era morto.

«Gas!» gridò forte. «Attaccano con i gas!»

Gettai la cicca e subito aprii il tappo laterale del contenitore a tubo che, come gli altri soldati, avevo alla cintura.

Freneticamente indossai la maschera pregando che i filtri fossero ancora attivi: dall’ultimo attacco non li avevo cambiati. Erano finiti per tutti, come il sapone e la morfina. Ma non si dimenticavano mai di rifornirci di pallottole: il magazzino era pieno di caricatori Mauser e granate.

Un boato mi scosse.

I cannoni Quasar iniziavano il martellamento delle nostre linee come copertura per il loro assalto.

Caricai il mio K-303 e montai la baionetta. Hanz, alla mia destra, aprì l’erogatore di carburante e accese il fuoco pilota del lanciafiamme. D’istinto mi spostai e lui se ne accorse; se lo colpivano, non aspiravo a finire coinvolto nella deflagrazione.

Ci fu un’altra esplosione. Fece tremare tutto e mi buttò addosso terra e detriti: questa volta avevano colpito maledettamente vicino.

Il capitano agitò in cerchio la pistola: non era facile dare ordini con la maschera sulla faccia e quel gesto era il nostro segnale convenuto che significava: Fuoco!

Alzai la testa e iniziai a sparare.

L’elmo calato sugli occhi, il vetro graffiato della maschera, la terra che saltava dopo ogni boato, l’oscurità della notte, tutto contribuiva a farmi distinguere con difficoltà i nemici in arrivo; ma io continuai a far fuoco nella loro direzione.

Spuntarono in mezzo al fumo, bersagliati dai nostri colpi: avanzavano e cadevano come mosche. I bossoli saltavano via dal mio Mauser K 303 che sussultava e si arroventava.

Un’altra tremenda esplosione fece saltare in aria alcuni degli assalitori, insieme a sassi e polvere; quando ricaddero a terra erano a pezzi, vittime del fuoco amico.

Provai quasi pena per loro: spesso succedeva anche a noi.

Approfittai del polverone per cambiare il caricatore: ero quasi a secco. Accanto a me, gli altri continuavano a sparare. Bisognava abbattere quanti più nemici possibile, prima che arrivassero alla trincea.

Ma non riuscimmo a fermarli.

Il primo che saltò dentro la trincea usava il fucile con la baionetta innestata come se fosse una lancia. Infilzò Fritz in pieno petto spingendolo a terra. Non ebbi il tempo di fermarlo, ma iniziai subito a sparare.

Da quella distanza ravvicinata crivellai di colpi quel soldato, che andò a sbattere contro la parete della trincea per poi cadere esanime nel fango.

Mi guardai intorno. Gli assalitori stavano travolgendo la nostra linea. Arrivavano da tutte le parti, fendendo l’aria con le baionette. I mitra ormai sparavano in modo disordinato e molti di noi cadevano a terra morti.

Sentii un gran caldo. Accanto a me, Hanz si dava da fare con il lanciafiamme. La vampata di fuoco avvolse un soldato tra i tanti che penetravano nella trincea.

Rovinò a terra con il corpo in fiamme come una torcia e io mi spostai per non andare arrosto.

Fu una distrazione di troppo. Alzai la testa e già ne avevo un altro che mi saltava addosso, parai il colpo col fucile che mi si spezzò in mano sotto il peso della sua furia.

Cademmo lottando in mezzo al fango. D’istinto riuscii ad afferrare la maschera e gliela strappai; vidi la faccia di un disgraziato come me, che iniziava a soffocare intossicato dal gas.

Non badai più a lui, era spacciato. Presi invece il suo mitragliatore: avevo bisogno di un’arma e la mia era a pezzi.

Feci appena in tempo ad alzarmi in ginocchio, quando, alcuni metri più avanti, qualcuno colpì le bombole di Hanz e ci fu una tremenda deflagrazione.

Calore e fiamme m’investirono e stramazzai al suolo stordito; tutto, intorno a me, ruotava e vedevo doppio.


Non so per quanto tempo rimasi svenuto. Chissà quanti lottarono sopra di me, magari calpestandomi in quella tremenda mischia. E chissà quale santo decise di proteggermi, facendomi sopravvivere allo scontro.

Chissà.

Quando rinvenni, la battaglia era finita. Un commilitone mi scosse afferrandomi per le spalle. Non riuscivo a capire chi fosse: con la maschera sembravamo tutti uguali.

Mentre mi riprendevo lentamente, mi accorsi che avevo la divisa bruciacchiata ed ero pieno di fango; a parte questo mi sembrava di essere ancora tutto intero. Mi era andata bene, questa volta. Mi alzai facendogli cenno che era tutto a posto e lui si disinteressò di me. Passò a soccorrere gli altri.

Appena fui in piedi, barcollai, sentii la testa che girava e le tempie che mi martellavano. Mi guardai intorno: il nemico si era ritirato e il campo di battaglia era più tetro e devastato di prima.

Di Hanz restava poco, poco più di uno scheletro che bruciava con ancora addosso le bombole aperte come una scatola di fagioli. Vicino a lui, altri tre corpi semicarbonizzati... e non si capiva se fossero amici o nemici.

I feriti si lamentavano e i morti erano centinaia, di entrambi gli eserciti.

Cominciavo a non poterne più di quella carneficina quotidiana. Tolsi la maschera, ormai ero uno dei pochi che ancora la indossava, segno che il gas si era disperso. Proprio in quel momento il capitano mi venne incontro.

«Stai bene?»

«Credo di sì, capitano».

«Finché non trovo dei rimpiazzi, devi mantenere la posizione. Hai dieci uomini per proteggere questo fronte. Cerca di fare un buon lavoro».

«Agli ordini, capitano».

Lui si voltò e si avviò verso il prossimo settore delle trincee, probabilmente per assegnare quella parte ad altri che ancora erano in grado di reggersi in piedi. Osservai in silenzio i barellieri che portavano via i feriti urlanti.

Uno degli uomini che avevo intorno mi affrontò.

«Sergente, noi restiamo qui?»

«Sì, piazzatevi tre metri l’uno dall’altro e aguzzate la vista, potrebbero riprovarci».

«Non sono loro i nostri nemici, sergente» gridò. «Il vero nemico è chi ci tiene qui, a scannarci per una guerra inutile».

«Stai attento» gli dissi «parli come uno di quelli del Pugno Nero. Se riferisco le tue parole, andrai dritto davanti alla corte marziale».

Lui mi guardò con un ghigno di sfida, in fondo mi conosceva bene.

«So che non lo farai e che la pensi come me! Siamo in molti a pensarla così e non facciamo parte del Pugno Nero».

Continuò a punzecchiarmi. Sapevo che aveva ragione.

«Dicono che il Pugno Nero è trasversale, che ne fanno parte traditori di Norkheria e di Estralhia. Ma chi è il vero traditore? I Conti e i Baroni che hanno iniziato la guerra non li ha più visti nessuno. Ora si fanno chiamare Inaccessibili e se ne stanno al sicuro nei loro palazzi mentre le nostre mogli lavorano come schiave nelle fabbriche di armi. Gli Inaccessibili! Ecco chi sono i veri traditori!»

Si zittì improvvisamente perché il tenente passava proprio in quel momento. Scrutò tutti con un’occhiata severa ma non intervenne. Sapevo che aveva sentito e lo guardai mentre si allontanava. Era un tipo taciturno e chiuso. Direi quasi enigmatico e a volte mi spaventava.


Non ricordavamo il motivo scatenante di quella guerra. Eravamo tutti nati a conflitto iniziato e c’eravamo abituati a quella vita, ammesso che si potesse definire tale.

Devo ammettere che il Pugno Nero affascinava anche me. Li chiamavano terroristi, traditori, disertori. Quando riuscivano a prenderli, venivano immediatamente fucilati. Ma cosa volevano? Dicevano di guardarci dai nostri ufficiali superiori e dagli Inaccessibili.

In fondo non ce l’avevano con noi, ma solo con quei colonnelli e quei generali pieni di sé che davano ordini rimanendo sempre indietro, al sicuro.

Ecco, ne stava arrivando uno. Il generale Kraditz veniva a verificare la situazione sul campo. Era circondato dalla sua guardia personale, soldati in nero che mi sembrava avessero tutti la stessa faccia senza espressione.

Non che il generale ne avesse una migliore, o esprimesse un sentimento. Era distaccato e altezzoso, mi faceva rabbia.

Scambiò due parole col capitano, il tenente stava vicino in silenzio. A noi soldati il generale non disse niente, nemmeno un bravi ragazzi, sono orgoglioso: vi siete battuti come leoni. Se ne andò nella baracca di comando, probabilmente a sfogliare mappe e a spostare bandierine.


Passarono almeno due ore. Il fronte sembrava tranquillo e gli uomini cominciavano a sonnecchiare. Avevo messo due sentinelle a vigilare in modo che gli altri potessero riposarsi.

La raffica che sentimmo ci scosse tutti dal torpore, un’altra seguì la prima quasi subito accompagnata da colpi di pistola. Ci stavano attaccando! Vidi le sentinelle stupefatte che alzavano le spalle. Guardai oltre i sacchi di sabbia e capii che non c’era nessun attacco.

«I colpi vengono da dietro le nostre linee» disse una sentinella.

«Hai ragione» risposi. «Sembra che provengano dalla baracca comando».

Non potevo lasciare sguarnita la postazione, ma sapevo che, in una situazione del genere, da ogni parte della lunga trincea sarebbe accorso qualcuno; mandato dal caporale o dal sergente che controllava la zona. «Jorg, Arvid, con me! Gli altri mantengano la posizione! Andiamo a vedere cos’è successo».

Man mano che ci avvicinavamo alla baracca, altri uomini si univano a noi e alla fine fummo in quindici. Abbastanza per fronteggiare lo sconosciuto nemico.


Tre uomini della guardia personale del generale erano stesi fuori della baracca, ma non era questo che mi aveva sconvolto.

Il fatto era che non si poteva dire che fossero morti. Un morto lo sapevo riconoscere al volo: sangue, ferite, espressione di dolore. Questi invece avevano la solita faccia di sempre, non c’era sangue in terra o sulle divise, nonostante gli evidenti fori di proiettile.

Uno addirittura aveva un braccio staccato dal corpo. Come diavolo era successo? Raccolsi quel braccio e mi sembrò l’arto di un manichino: Dalla parte staccata fuoriusciva qualcosa simile alla canapa.

Sembravano tre pupazzi rotti.

Aprii la porta della baracca impugnando il Mauser. Incontrai lo sguardo attento del capitano: stava tranquillamente seduto con la pistola in mano.

Per terra davanti a lui c’era il generale, privo di testa. Non era decapitato, era solo smontato: vidi la testa due metri più in là con quegli strani filamenti di canapa che gli uscivano dal collo. La sua faccia era altezzosa, come sempre.

Il tenente era in piedi; imbracciava il mitragliatore fumante. Stese ai suoi piedi, le altre tre guardie nere.

«Penserai che li abbiamo uccisi, figliolo» disse con calma il capitano. «Sarebbe un crimine imperdonabile uccidere il proprio comandante e dare così un grosso vantaggio al nemico».

Io non dissi nulla. Anche gli altri dietro di me rimasero in silenzio. Il capitano continuò, tranquillo.

«Quello che dobbiamo capire è chi abbiamo ucciso e poi, se questi siano mai stati vivi».

«Sembrano dei pupazzi» dissi.

«Sono dei pupazzi!» replicò. «Marionette, burattini, tutto, fuori che uomini. Noi del Pugno Nero ci siamo coordinati per un’azione che cambierà il destino dell’umanità. Oltre le linee avversarie qualcuno dei nostri, tra le file di Estralhia, ha fatto lo stesso con il loro ufficiale superiore. L’operazione è partita e si espanderà a macchia d’olio per neutralizzare tutte le marionette che ci hanno comandato finora. Queste creature comandano migliaia di uomini ignari e obbedienti per cui non sappiamo se avremo successo. Ma era importante tentare.

C’è un altro fattore importante da valutare: dietro a ogni marionetta c’è sempre un regista.

Non sappiamo chi siano in realtà gli Inaccessibili, nessuno li ha mai visti. Ma se non possono comandarci di persona e hanno bisogno di pupazzi che rispondono direttamente ai loro ordini, ciò significa che sono pochi, oppure che sono deboli. Finché non arriveremo a loro, non sarà finita. Ma giuro che ci arriveremo».

Scambiai un’occhiata con i miei compagni: la pensavamo tutti allo stesso modo.

«Capitano, noi siamo pronti!»


***


L’Inaccessibile di Norkheria guardava fisso fuori della vetrata del palazzo. Era vestito con una lunga tunica rosso scura. Bordature in oro e argento la rifinivano, Un grosso casco di piombo gli copriva completamente il capo.

Se ne stette impassibile, voltato verso la finestra, anche quando entrò nella stanza uno dei suoi generali pupazzo a riferire le ultime novità. Il pupazzo si avvicinò e si fermò sull’attenti.

«Potente Inaccessibile, abbiamo perso il controllo d’importanti parti dell’esercito, la ribellione dilaga e presto gli uomini diventeranno pericolosi».

Senza aspettarsi una risposta, poiché il suo unico compito era riferire la situazione, il generale fece dietrofront e uscì dalla stanza.

L’Inaccessibile azionò una leva e gli enormi tendaggi coprirono la finestra oscurando quasi del tutto la stanza.

Nell’oscurità, al sicuro dalle radiazioni solari, poteva togliersi il pesante casco di piombo. Nella penombra, illuminata dalla luce che riusciva a entrare attraverso uno spiraglio tra le tende accostate, fu finalmente ben visibile la sua enorme testa d’insetto, con i grandi occhi sfaccettati e le mandibole che si strofinavano nervosamente l’un l’altra.

Emise uno stridio, evidentemente preoccupato. C’erano solo altri otto suoi simili a dominare il mondo. I terrestri cominciavano ad aprire gli occhi e il gioco che lui e gli altri avevano portato avanti per duecento anni non poteva continuare.

Il loro potere era proliferato grazie all’ignoranza! Era bastato sostituirsi agli stolti governanti della Terra per ereditare una gigantesca massa umana da usare a piacimento.

Presto, però, le cose sarebbero cambiate. Lui e gli altri avevano una sola possibilità, salire sulle astronavi e fuggire. Da qualche parte nel cosmo, c’era sicuramente un altro pianeta da sottomettere, bisognava solo cercarlo.

Decise di partire, al più presto.

 

Questo e altri racconti sono inclusi nell'antologia SCHEGGE DALLO SPAZIO