venerdì 6 aprile 2018

Un viaggio nel tempo



Leonardo Cavon era immerso in uno strano sogno.

Era a casa sua, ma non riposava nel suo letto. Infatti era sdraiato dentro una capsula d’ibernazione!

Cuscino comodo, pareti imbottite, un freddo pungente eppure ben tollerato in ogni parte del corpo. In quel sogno navigò tra i ricordi e, oltre al suo nome, recuperò la sua età, sessant’anni, il suo mestiere, ricercatore specializzato in biocriogenia e i tratti di un volto femminile che gli fecero digrignare i denti per il nervosismo.

Quel viso apparteneva alla sua ex moglie.

Era l’unico elemento che stonava col successo raggiunto nella sua maturità: aveva ricevuto il Premio Nobel proprio per aver perfezionato il sistema di ibernazione, era diventato milionario grazie ai diritti sulle scoperte scientifiche, aveva girato il mondo e si era divertito. Forse i soldi avevano contribuito a distruggere il suo matrimonio, ma di questo ormai non si curava più; si rammaricava solo per non aver avuto figli. Gli era stata preclusa quell’immortalità generazionale tipicamente umana che permetteva di sconfiggere il Tempo.

Ma lui aveva inventato un modo più intelligente di sconfiggere quel subdolo bastardo. I legami col suo mondo, vista l’assenza di una famiglia, si erano spezzati. Non aveva più ragioni per vivere nel 2068.

Del resto, nel suo sogno il 2068 era lontano, l’aveva superato da secoli ed era in attesa di vedere un mondo migliore... nel futuro.

In un angolo della sua mente, un pensiero cosciente emerse e pose una domanda impertinente.

Come è possibile che abbia ricordi di un sogno?

Durante il sonno criogenico, la fase REM era del tutto assente. Anche in un sogno, il suo subcosciente di scienziato non avrebbe mai potuto compiere un errore simile. Il fatto che invece lui sognasse poteva significare una cosa soltanto: era davvero dentro una capsula d’ibernazione e la sua coscienza stava riaffiorando lentamente, vicina al risveglio.

Sentì un formicolio diffuso, riuscì a muovere le dita e subito dopo strinse i pugni. Mosse le dita dei piedi, mosse i piedi e le gambe. Aprì gli occhi.

Sul vetro offuscato dal ghiaccio della sua capsula vide proiettati i parametri vitali, erano regolari, colorati in verde. Lampeggiando in blu, alla sua sinistra, apparve il tempo rimanente alla fine del processo di rianimazione: quattro minuti.

Attese trepidante il passare di quei duecentoquaranta secondi. Un getto di vapore annunciò l’attivazione del meccanismo di apertura, il coperchio bianco lucido della capsula con la visiera di vetro posta all’altezza del viso si alzò e fu libero.

Sfortunatamente, si drizzò sulla schiena con eccessiva velocità e batté la fronte sull’apertura che si era sollevata solo per tre quarti davanti a lui.

«Stramaledetta di una...». Lasciò a metà l’imprecazione e si toccò il bozzo cresciuto sulla fronte. «Grazie, Futuro, per questo magnifico benvenuto».

Tra una selva di maledizioni, sollevarsi comportò non poca fatica, a causa dell’età e del lungo intervallo di inattività. Un individuo più giovane avrebbe fatto meglio? Forse. E il supporto di uno staff medico sarebbe stato utile? Certo che sì, ma nessuno poteva prevedere quale situazione l’ibernauta avrebbe incontrato nel futuro, perciò era il computer della capsula che pensava a tutto: sostituiva lo staff medico e l’aveva appena “scongelato”.

Si staccò di dosso uno a uno i sensori a ventosa che servivano per monitorarlo; mise una gamba fuori della capsula, poi l’altra e si alzò in piedi.

Barcollò come un ubriaco. Dovette aggrapparsi a un bordo del coperchio.

Dai, Leonardo, mettici un po’ d’impegno, per la miseria, si incitò al secondo tentativo.

Fece qualche passo incerto, poi divenne più sicuro e fermo sulle gambe. Riacquistò in breve la sua forza, i sistemi di sostentamento criogenico avevano funzionato a dovere. Controllò il display sulla capsula: lampeggiava l’anno 7945.

Gli scappò un fischio di sorpresa. «Sei stata dannatamente efficiente, non per niente ti ho creata io».

Rifilò una pacca alla capsula, quasi fosse stata un vecchio amico. Passato l’autocompiacimento professionale, si guardò attorno. La stanza che fungeva da camera criogenica si trovava nel laboratorio interrato sotto la sua villa, situata alla periferia di Verbania.

Restava una sola cosa da fare: mettere il naso fuori e scoprire com’era il mondo nell’anno 7945.

Di passaggio davanti allo specchio, la sua immagine riflessa lo scandalizzò. I capelli grigi erano in piedi come se avesse infilato un dito in una presa elettrica e la tuta criogenica, finissima e percorsa da tubi cuciti nel tessuto che servivano per completare il monitoraggio dell’organismo, metteva in evidenza con precisione scultorea parti anatomiche di cui non andava particolarmente fiero, come del resto la sua ex.

Anche la pancia prominente lo faceva apparire abbastanza ridicolo. Si diresse all’armadietto in fondo alla stanza, lo aprì, si tolse la tuta, la ripiegò per bene e indossò gli abiti che aveva riposto lì dentro qualche millennio prima: camicia sobria, giacca, pantaloni e scarpe eleganti nere.

Pose una mano sulla cassaforte murata in una parete, affinché il sistema di sicurezza biometrico della casa lo riconoscesse e l’aprisse. Estrasse una decina di custodie in cui conservava la sua collezione di orologi. Aveva lottato per l’intera vita contro il Tempo, ma non poteva fare a meno di avere uno strumento che lo calcolasse.

Scelse il suo modello preferito tra gli antichi esemplari a carica manuale. Gli altri digitali avevano esaurito le batterie che probabilmente non esistevano più in quell’epoca.

Lo impostò sulle dodici, non sapendo l’ora precisa in quella sua nuova vita.

Nel sistemare l’orologio al polso, si soffermò per un attimo a leggere il proprio nome sul cinturino d’oro. Quell’esemplare era stato un dono del suo gruppo di ricerca quando aveva vinto il Nobel. Rivisse con soddisfazione le stesse sensazioni provate nel momento in cui l’aveva ricevuto.

Era un genio, un benefattore dell’Umanità, c’era poco da discutere.

Pettinò i capelli bianchi che gli davano quell’aspetto eccentrico, un po’ da scienziato pazzo, utilizzando il pettine e il piccolo specchio dell’armadietto. Infine si fece coraggio, era ora di andare.


Nessun commento:

Posta un commento